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Questo è il mio blog personale, un blog di confine, dove proverò a pubblicare un pò di cose mie, per me e per chi le vorrà leggere.

Il Confine

...un confine, proprio perché si pone di fronte a una differenza, deve essere valicato, non deve essere ignorato ponendovi a limite la diffidenza, così come è valicato sistematicamente il confine che c’è fra il giorno e la notte, tra il prima e il dopo, tra la terra e il mare, fra l’uomo e la donna, tra la vita e la morte.

lunedì 22 giugno 2009

La Fotografia

Avevo appoggiato la fotografia sulla scrivania, proprio di fronte al computer, dopo averla girata e rigirata cento volte cercando di farmi venire un’ispirazione o un’ idea qualsiasi. Certo che la commissione d’esame del corso di letteratura italiana aveva avuto proprio una bella pensata per il racconto da proporre all’esame finale. Invece della solita traccia scritta che era sempre stata data negli anni precedenti, quest’anno avevano fornito una fotografia in bianco e nero: un portico ottocentesco con una figura d’uomo in controluce che avanzava. E su questo avremmo dovuto sviluppare la nostra narrazione.
No, non ce l’avrei mai fatta, due anni di corso buttati via senza neppure ottenere il diploma finale, questo era il risultato previsto.
Va bene, per oggi poteva bastare, tanto non veniva fuori nulla di accettabile, era meglio andare a dormire sperando che la notte portasse consiglio.
Spensi la luce, e con gli occhi chiusi continuavo a pensare alla fotografia, la mia mente ondeggiava tra il sonno e la veglia e in quella situazione mi sembrò che quell’immagine non mi fosse del tutto nuova, era come se in quel posto, sotto quei portici io ci fossi già stato, perché quella non era per me una fotografia qualsiasi, ma un’immagine che scavava nella mia memoria alla ricerca di un ricordo lontano.
E mentre il sonno prendeva il sopravvento ebbi la certezza che, veramente io sotto quel portico c’ero già stato.
Avevo otto anni, camminavo assieme a mio padre che mi teneva per la mano, non so quale città fosse, ricordo che la giornata era bella, ma faceva freddo. All’improvviso vedemmo venire verso di noi un uomo che avanzava con passo deciso, il quale, quando ci incrociammo, mi sfiorò con un braccio, poi fatti pochi passi all’improvviso si fermò voltandosi a guardarmi. Anche io mi fermai e mi girai staccandomi da mio padre. La figura che prima mi era sembrata scura e massiccia adesso non lo era più e mi guardava con un sorriso. Poi, senza parlare l’uomo mi tese la mano, invitandomi a seguirlo e non so per quale motivo lo feci, ma lo seguii. Voltammo in una via laterale dove i portici erano scomparsi ed entrammo in un androne che dava accesso ad un piccolo cortile delimitato da alti muri in mattoni. Al fondo vi era un passaggio chiuso da un cancello in ferro, e noi ci avviammo proprio verso quello, con passo deciso: era come se l’uomo sapesse esattamente dove andare; dall’altra parte si intravedeva un giardino denso di alberi e vegetazione. Entrammo nel giardino che visto da fuori non sembrava troppo grande, ma una volta lì pareva che invece fosse molto ampio, anzi addirittura non si intravedevano i confini.
- Dove siamo e dov’è il mio papà? – domandai finalmente anche se con timore.
- Non ti preoccupare, tuo padre lo rivedrai presto – mi disse – ora devi accompagnarmi in un posto.
- Ma tu, chi sei? – insistei ancora.
- Chi sono non ha importanza, poi lo capirai, ora vieni, visitiamo questo giardino.
Non avevo paura perché il tono dell’uomo era particolarmente sereno e poi ero incuriosito da quel luogo così strano, che, ora che lo guardavo meglio, non sembrava neanche più un giardino, ma quasi un bosco, anzi un bosco molto grande: ma com’era possibile? - dato che eravamo in una città, o almeno così credevo.
Ci inoltrammo nel bosco che era fitto di querce e faggi, attraverso un sentiero sinuoso. Mano a mano che avanzavamo il bosco diveniva sempre più fitto, tanto che non filtravano quasi neppure i raggi del sole. Ad un certo punto giungemmo al margine di una piccola radura, ormai mi ero convinto di essere finito in una foresta, su un lato si vedeva una piccola costruzione in mattoni, dall’altra parte una casa più grande. L’uomo mi condusse sino a quest’ultima. Era a due piani e sembrava molto antica, un grande roseto si trovava davanti alla facciata e incorniciava due finestre. Entrammo, c’era una grande stanza, con il soffitto piuttosto alto, un tavolo e solo alcuni mobili. Sembrava che l’uomo conoscesse bene quel luogo perché si avviò verso il fondo della stanza e da un mobile trasse una scatola di cartone, tutta rivestita con stoffa rossa.
- Siediti - mi disse – guardiamo cosa c’è in questa scatola.
La aprì, era ricolma di fotografie molto vecchie e ingiallite.
C’erano ritratti di persone, uomini, donne, bambini che non avevo mai visto, tutte vestite con abiti che non si usavano più, altre fotografie di oggetti e abitazioni di qualche luogo che non conoscevo.
Guardavo quelle immagini e non sapevo a cosa pensare, quale significato potevano avere per me, poi mi capitò in mano la fotografia di un bambino.
A vederlo aveva pressappoco la mia età. Anche i capelli erano chiari come i miei e leggermente ondulati. Anzi ad osservarlo bene mi somigliava proprio, di più, se non fosse stato per il vestito avrei detto che ero proprio io. Rimasi colpito nel vedere la fotografia di un bambino che mi somigliava così tanto. L’uomo colse lo stupore del mio sguardo e disse:
- Ti piace? Quello sono io da bambino.
- Mi… mi somiglia un po’ – dissi balbettando.
- Si, un po’ – confermò l’uomo.
Girai la fotografia e lessi una data: 1912 e poi un nome, Candido.
- Anche io mi chiamo Candido! – esclamai.
L’uomo sorrise, poi si alzò di nuovo e sempre dallo stesso mobile trasse una scatola di biscotti, la aprì e mi invitò a mangiarne:
- Sono buoni – disse.
Ne assaggiai uno, era veramente buono, come non ne avevo mai mangiati, ne presi ancora un altro e un altro ancora, anche l’uomo mangiava e rideva. Quando la scatola fu finita disse:
- Vieni dobbiamo andare, tuo padre ci aspetta.
Ripose la scatola con le fotografie e anche quella dei biscotti, pure se era vuota, poi uscimmo dalla casa e tornammo nella radura, quando ci inoltrammo nel bosco mi sembrava più piccolo di prima, forse perché ci ero già passato, tanto che nello spazio di pochi istanti raggiungemmo il cancello di ferro e uscimmo nel cortile, poi di lì nella via.
Quando svoltai l’angolo della strada vidi mio padre sotto i portici che guardava dall’altra parte.
- Ciao – mi sussurrò l’uomo – ora và.
- Ciao – risposi.
- Papà.
- Ah Candido, vieni, non ti allontanare, che già quel signore ti ha quasi buttato a terra. Chissà dove andava così di fretta, è già sparito.
- Ma papà non mi hai cercato? – chiesi.
- No, perché? Mi sono solo voltato un momento – rispose.
Rimasi colpito dalla risposta, poi realizzai che anche se io credevo di essermi allontanato per molto tempo, per mio padre quel tempo non era affatto trascorso e per lui io ero sempre stato lì. Ma allora, cosa era accaduto?
- Papà ci siamo già stati in questa città? – domandai.
- No è la prima volta che veniamo, ma è molto bella, penso che ritorneremo ancora.
- Papà, senti, ma come mai mi chiamo Candido?
- Ah che domanda…è una storia strana, pensa che tua nonna aveva un fratello che portava il tuo stesso nome. Per un incidente accadutogli mentre aiutava i suoi nel lavoro dei campi è morto che era ancora bambino, a soli otto anni. Poi nessuno nella famiglia, per un motivo o per l’altro ha dato più questo nome ai suoi figli e solo alla tua nascita, io e mamma, abbiamo pensato che sarebbe stato bello ricordare quel lontano pro-zio.
- Ma quando è morto di preciso lo zio Candido?
- Eh non ricordo, mi pare nei primi anni del secolo.
- Nel 1912?
- Si, nel 1912, giusto, ma tu come fai a saperlo?
- Niente, niente, ho tirato a indovinare.

Dopo il sonno mi svegliai presto e notai che la fotografia appoggiata alla scrivania era caduta. La sollevai e dandole ancora un’occhiata prima di uscire ebbi la certezza che oggi un’idea per il mio racconto, mi sarebbe certamente venuta.

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