Benvenuti

Questo è il mio blog personale, un blog di confine, dove proverò a pubblicare un pò di cose mie, per me e per chi le vorrà leggere.

Il Confine

...un confine, proprio perché si pone di fronte a una differenza, deve essere valicato, non deve essere ignorato ponendovi a limite la diffidenza, così come è valicato sistematicamente il confine che c’è fra il giorno e la notte, tra il prima e il dopo, tra la terra e il mare, fra l’uomo e la donna, tra la vita e la morte.

venerdì 23 ottobre 2009

Scalenghe, 13 ottobre 1693

Ricordo il rumore dei cavalli e il rombo cupo che saliva sino a divenire assordante mentre riempiva le orecchie e la testa. Ricordo l’odore della polvere umida che penetrava negli occhi e nella gola e non ti faceva respirare. Ricordo le grida di quelli che dicevano alle donne di scappare e nascondersi da qualche parte. Ricordo il pianto di un bambino rimasto solo in mezzo alla strada, mentre soldati e cavalieri gli sfrecciavano intorno, miracolosamente senza toccarlo. Ricordo le porte del recinto sfondate come fossero di carta, attraverso le quali entrava un numero infinito di soldati, dopo che stupidamente ci eravamo illusi che quelle povere palizzate potessero proteggerci dall’orda barbara e incontrollata. Ricordo che sono entrati travolgendo tutto e tutti, perché non avevamo difese contro di loro, chè non eravamo certo noi pochi uomini, armati solo di forconi e di qualche vecchia sciabola arrugginita a poter tenere fuori dal paese un esercito straniero bramoso di saccheggio.
Fu così che irruppero in mezzo alla piazza: prima i cavalieri, poi la truppa a piedi. Vicino a loro stava il comandante, fiero e tranquillo sul suo cavallo: il generale Catinat, dissero. Ad un suo cenno, alcuni ufficiali che gli stavano intorno lanciarono degli ordini e lì si scatenò la barbarie. Gruppi di soldati entrarono in tutte le case, che per fortuna nella gran parte erano vuote. Chi era potuto fuggire lo aveva fatto verso le campagne, dalla parte di Cercenasco o di Buriasco, molti, quasi tutti i vecchi, le donne e i bambini si erano rifugiati nella chiesa di S. Caterina, sollecitati dal prete che credeva fermamente che le solide mura e il rispetto di Dio avrebbero fermato gli invasori e in questo almeno ebbe ragione.
Quelli che non avevano lasciato le case e si erano nascosti nelle cantine o nelle soffitte, illudendosi in questo modo di essere al sicuro e di proteggere i loro beni, non ebbero scampo. Furono tutti trovati e uccisi sul posto o peggio ancora trascinati per strada e massacrati dopo essere stati fatti oggetto di dileggio e torture di ogni genere; cosa che avvenne anche a quelli che si erano fatti sorprendere per strada a fuggire chissà dove. In un vicolo una donna era preda delle brame di quattro soldati: un gruppo di uomini tra cui Giò Battista e Ugo Antonino, intervennero a sua difesa, ma i soldati reagirono con violenza e mentre uno continuava a tenere ferma la donna, gli altri massacrarono i poveri compaesani che li avevano disturbati. Antonino fu abbattuto con un colpo d’ascia, Giò Battista ucciso con la spada e buttato in un angolo, gli altri fuggirono, poi i barbari compirono il loro delitto e alla fine neppure la donna venne risparmiata. In quei momenti la vita di un uomo non aveva, per quei soldati, più valore di quella di una gallina o di un coniglio. Né alcuna casa rimase indenne dalla ferocia dei francesi: che fosse di quelle più povere dove non c’era quasi nulla da prendere, o che fosse di quelle più ricche dove i soldati facevano man bassa di tutto ciò che trovavano. Portavano via quello che ritenevano di valore distruggendo e gettando fuori tutto il resto, mobili, vestiti, suppellettili, poi alla fine, inderogabilmente, davano fuoco all’edificio. Sorprendeva la loro incredibile capacità di svuotare un edificio e gettare tutto in strada nello spazio di pochi minuti.
A sera tutto il paese era ridotto in fiamme.
E mentre tutto ciò accadeva, nel cortile del castello dei Signori Piossasco, il generale Catinat, seduto su una seggiola da campo in tela, sorseggiava un calice di vino rosso, conversando amabilmente con i suoi ufficiali, mentre attendeva la fine della razzia.
Alla fine di tutto non ebbe miglior sorte neppure lo stesso castello: i pochi servitori che lo difendevano furono passati per le armi nel giro di qualche istante, poi, dopo il saccheggio selvaggio, alcuni soldati trascinarono di fronte all’edificio un cannone da campagna, facendolo oggetto di numerosi colpi che aprirono larghe brecce nei muri. Quindi furono minate le fondamenta e alla fine anch’esso fu dato alle fiamme. A notte inoltrata il calore del fuoco fece brillare le mine e il castello venne giù in rovina.
Vidi quest’ultima scena dall’alto, perché impotente e incapace di fare qualcosa, anche io mi ero rifugiato nella chiesa, poi insieme ad altri uomini ero salito nel sottotetto dell’edificio da dove avevamo tolto alcune tegole uscendo fuori ad osservare lo straziante spettacolo del nostro paese distrutto. Con stupore di tutti, ma come il prete aveva previsto, la chiesa non fu toccata, anche se il suo muro esterno divenne il luogo prescelto dalla soldataglia per orinare e defecare.

Eppure tutto questo non era giunto inatteso. Il primo segno che qualcosa di grave sarebbe accaduto lo si ebbe alla fine di settembre. Eravamo intenti a lavorare in un fosso al Campolungo quando vedemmo passare sulla strada di Castagnole un convoglio formato da due carrozze e quattro carri carichi di suppellettili di ogni genere, scortato da alcuni cavalieri. Erano gli abitanti del castello, Signori della famiglia Piossasco, che lasciavano Scalenghe alla volta di Torino. Fu una cosa inconsueta perché mai a memoria nostra i Signori Piossasco avevano abbandonato il paese lasciando a guardia del palazzo solo pochi servitori.
Qualche giorno dopo, invece, giunse notizia che i francesi avevano disceso la valle di Susa e stavano attaccando il Duca Vittorio Amedeo alle spalle, mentre egli cercava di prendere Pinerolo. In effetti prestando attenzione ci accorgemmo che erano cessati i colpi di cannone che anche di notte, da qualche settimana, si sentivano provenire costantemente dalla direzione di Pinerolo e non si udiva più nulla. Ma fu il giorno quattro che si seppe della battaglia. Salimmo sul campanile per osservare verso nord, nella direzione di Volvera. Nonostante la distanza si sentiva distintamente il rombo del combattimento. Nuvole di fumo che si alzavano in cielo si videro per tutta la giornata, mentre messaggeri raggiungevano i paesi per portare qualche notizia. Ora sembrava che prevalesse il Duca, ora sembrava avessero la meglio i francesi. Poi tutto cessò e non si seppe più nulla per qualche giorno.
Le prime avanguardie di coloro che scappavano, arrivando da Airasca, chiarirono definitivamente i dubbi su chi aveva prevalso nel terribile scontro. I francesi! Avevano vinto i francesi! Tutti avevamo chiaro nella testa ciò che sarebbe accaduto. Trascorsero due giorni di relativa calma, in cui mentre si rafforzavano le palizzate, qualcuno osava sperare che l’esercito di Catinat sarebbe ritornato indietro verso la val Susa o si sarebbe diretto a Torino. Ma il mattino successivo fu a tutti ben chiaro il nostro destino. E mentre i primi cavalieri si affacciavano alle porte del nostro paese, già gli abitanti della Pieve erano fuggiti per le campagne, lasciando le loro case quale ambita preda alla retroguardia dell’esercito invasore.

Ricordo che uscimmo dalla chiesa alle prime ore dell’alba, dopo che i francesi se ne erano andati. Ricordo che ci aggiravamo per il paese, cercando fra le case qualcuno che fosse ancora vivo. Ricordo che da una di queste sentii provenire un lamento flebile e, salito al primo piano, vidi che sul letto vi era il cadavere di una giovane donna, Rosa; al suo fianco un soldato francese giaceva, anch’egli morto, con un pugnale conficcato nel cuore. In un angolo piagnucolava un bambino di circa un anno, il figlio della ragazza. Lo presi in braccio e uscii in strada. Intanto sentivo un rombo lontano e mi voltai per capire da dove provenisse.
Guardai verso sud.
Nel cielo di Cercenasco già si vedeva salire il fumo dei primi incendi.

martedì 22 settembre 2009

Premio Letterario città di Pinerolo

Il racconto "Il Piave Mormorava..." si è classificato al 4° posto al XX Premio Letterario Nazionale Città di Pinerolo.

giovedì 9 luglio 2009

Ousitanio

Le quattro case in pietra formano una piazza che è poco più di uno slargo della strada, tanto è ristretta. Su un lato un glicine sale abbarbicato ad un piccolo balcone che si protende verso i quattro suonatori che stanno offrendo il loro meglio nell’esecuzione di una curenta della Val Varaita.
Seduto al tavolo della vecchia osteria, ascolto l’andare imperfetto della ghironda e dell’organetto a cui fanno da contraltare il flauto e il violino, mentre al centro dello slargo due uomini e due donne eseguono con passi conosciuti le figure dell’antica danza.
Di tanto in tanto la brezza della sera lascia la montagna e scende a riempire le strade e i cortili fra le case, mentre la luna fa capolino da qualche angolo sopra i tetti.
C’è un vecchio seduto davanti alla porta di casa, pare assorto nei suoi pensieri e voglio immaginare che stia pensando ad una sera come questa, di quando era giovane e in questa piazzetta, dopo una giornata di fatica sul campo ripido, si sforzava ancora di trovare il modo di parlare alla ragazza di fronte, che senza farsi vedere lo guardava di tanto in tanto, sperando la invitasse a ballare.
I suonatori cambiano musica, attaccando una bourèe e mi viene da pensare a quanto è bella questa musica, così antica e moderna insieme, che sembra chiusa fra le montagne, ma che all’improvviso vola via e allora la senti che parla di Provenza e Guascogna, che profuma di larici e di lavanda, che sa di polenta e acciughe salate, di viaggio, di vento, di sole e di mare.
Finisce la musica, i danzatori si fermano e il vecchio rientra in casa, allora mi alzo e vado dai suonatori, voglio solo fargli i complimenti, ma ci mettiamo a parlare e parlare e poco a poco mi fanno scoprire cosa vuole dire Occitania. E’ tardi, allora finisco un ultimo bicchiere e vado anche io, mentre penso alle parole della canzone:
“Remesclas. De sang e de musica, de temps e de gents, de raives e d’ideas. L’òme que coneis sa terra a ren pòur, se mescla. E remescla. Aquò qu’aiva dran a-n-aquò qu’al a devant. Aquò que ven da luenh e aquò qu’es siu. Aquò que se pòl veire e aquò que se pantalha. Lo sonarie que vira viatgia e pòrta via, ritorna e pòrta a-n-aquò siu aquò qu’a vist e aquò qu’a escotat. Sonaire de viola. Sonaire de valada. Valadas occitanas, valadas de frontiera. Valadas de remesclas.” (Lou Dalfin)

mercoledì 8 luglio 2009

Da L'Eco del Chisone

Bene, mi permetto di riportare l'articolo apparso su L'Eco del Chisone del 08 luglio 2009 che parla del mio libro, sapete, ci tengo.

Nel nuovo romanzo storico di Candido Bottin
Il mistero della Pieve di Scalenghe
È uscito nei mesi scorsi per "The boopen editore" il romanzo "La chiesa nuova. La ricostruzione della Pieve di Scalenghe" del giovane architetto scalenghese Candido Bottin.
L'autore ha già pubblicato nel 2007 "Il confine", un breve romanzo ambientato a Gorizia, sulla piazza Transalpina, dove nel 2004 è stato rimosso il confine che divideva l'Italia dalla Slovenia.
Si tratta di un breve romanzo storico (di facile lettura anche grazie a uno stile fresco e spigliato), basato in gran parte su una vicenda realmente accaduta, emersa dalla consultazione di documenti conservati nella parrocchia e che abbraccia le vicende del Piemonte sabaudo tra il 1680 e il 1740.
È il 1732 quando crolla la vecchia chiesa di Pieve di Scalenghe e il pievano, don Piero Berruto, si impegna nella ricostruzione della chiesa, progettata niente meno che dall'arch. Gian Giacomo Plantery. Ma c'è un piccolo mistero di cui il pievano non è a conoscenza: nella vecchia chiesa è nascosto un documento segreto che alcuni notabili del tempo, tra cui il conte Folgore di Piossasco e il barone Salvey di Cumiana, non vogliono far venire alla luce…
«Con questo secondo lavoro - spiega Bottin - mi sono avvicinato di più agli interessi e alle conoscenze della mia vita di architetto».
Il libro si può acquistare su Internet, www.boopen.it, il biblioteca a Scalenghe o ancora ordinare in libreria.

lunedì 22 giugno 2009

...Estate

Stare nel mezzo del pomeriggio con questa calura mi era di grande fatica. L’aria pesante, umida, appiccicosa e solida che la potevi tagliare a blocchi e impilare come le pietre di una cattedrale, non mi faceva respirare. In alto, il cielo grigio e uniforme, che impediva la vista ristoratrice delle montagne, chiudeva il cerchio del fastidio.
Poi è arrivata, annunciata da un brontolio e dallo scurirsi del cielo di là, verso la Liguria, con uno scroscio violentissimo, liberatore. Dopo, la massa di nubi si è aperta, liberando qua e là le montagne; l’aria finalmente raffrescata tornava con piacere a riempire i polmoni.
Anche le piante e l’erba del giardino si capivano soddisfatte, quasi quanto le anatre e le oche che non potevano credere alla fortuna della inattesa e magnifica pozzanghera in mezzo al cortile. La pianta di fichi nell’angolo dell’orto, mi attendeva gocciolando dai frutti maturi. Tutti eravamo beati del bene più prezioso.
Poi, proprio davanti a me ho visto una rosa aprirsi e godere della vita che dall’acqua le veniva offerta.
E così, anche io bagnato dalla pioggia, ho desiderato che il mondo fosse come il mio giardino e ogni uomo come la rosa e possa godere anch’egli della vita che dall’acqua gli sia offerta.

La Fotografia

Avevo appoggiato la fotografia sulla scrivania, proprio di fronte al computer, dopo averla girata e rigirata cento volte cercando di farmi venire un’ispirazione o un’ idea qualsiasi. Certo che la commissione d’esame del corso di letteratura italiana aveva avuto proprio una bella pensata per il racconto da proporre all’esame finale. Invece della solita traccia scritta che era sempre stata data negli anni precedenti, quest’anno avevano fornito una fotografia in bianco e nero: un portico ottocentesco con una figura d’uomo in controluce che avanzava. E su questo avremmo dovuto sviluppare la nostra narrazione.
No, non ce l’avrei mai fatta, due anni di corso buttati via senza neppure ottenere il diploma finale, questo era il risultato previsto.
Va bene, per oggi poteva bastare, tanto non veniva fuori nulla di accettabile, era meglio andare a dormire sperando che la notte portasse consiglio.
Spensi la luce, e con gli occhi chiusi continuavo a pensare alla fotografia, la mia mente ondeggiava tra il sonno e la veglia e in quella situazione mi sembrò che quell’immagine non mi fosse del tutto nuova, era come se in quel posto, sotto quei portici io ci fossi già stato, perché quella non era per me una fotografia qualsiasi, ma un’immagine che scavava nella mia memoria alla ricerca di un ricordo lontano.
E mentre il sonno prendeva il sopravvento ebbi la certezza che, veramente io sotto quel portico c’ero già stato.
Avevo otto anni, camminavo assieme a mio padre che mi teneva per la mano, non so quale città fosse, ricordo che la giornata era bella, ma faceva freddo. All’improvviso vedemmo venire verso di noi un uomo che avanzava con passo deciso, il quale, quando ci incrociammo, mi sfiorò con un braccio, poi fatti pochi passi all’improvviso si fermò voltandosi a guardarmi. Anche io mi fermai e mi girai staccandomi da mio padre. La figura che prima mi era sembrata scura e massiccia adesso non lo era più e mi guardava con un sorriso. Poi, senza parlare l’uomo mi tese la mano, invitandomi a seguirlo e non so per quale motivo lo feci, ma lo seguii. Voltammo in una via laterale dove i portici erano scomparsi ed entrammo in un androne che dava accesso ad un piccolo cortile delimitato da alti muri in mattoni. Al fondo vi era un passaggio chiuso da un cancello in ferro, e noi ci avviammo proprio verso quello, con passo deciso: era come se l’uomo sapesse esattamente dove andare; dall’altra parte si intravedeva un giardino denso di alberi e vegetazione. Entrammo nel giardino che visto da fuori non sembrava troppo grande, ma una volta lì pareva che invece fosse molto ampio, anzi addirittura non si intravedevano i confini.
- Dove siamo e dov’è il mio papà? – domandai finalmente anche se con timore.
- Non ti preoccupare, tuo padre lo rivedrai presto – mi disse – ora devi accompagnarmi in un posto.
- Ma tu, chi sei? – insistei ancora.
- Chi sono non ha importanza, poi lo capirai, ora vieni, visitiamo questo giardino.
Non avevo paura perché il tono dell’uomo era particolarmente sereno e poi ero incuriosito da quel luogo così strano, che, ora che lo guardavo meglio, non sembrava neanche più un giardino, ma quasi un bosco, anzi un bosco molto grande: ma com’era possibile? - dato che eravamo in una città, o almeno così credevo.
Ci inoltrammo nel bosco che era fitto di querce e faggi, attraverso un sentiero sinuoso. Mano a mano che avanzavamo il bosco diveniva sempre più fitto, tanto che non filtravano quasi neppure i raggi del sole. Ad un certo punto giungemmo al margine di una piccola radura, ormai mi ero convinto di essere finito in una foresta, su un lato si vedeva una piccola costruzione in mattoni, dall’altra parte una casa più grande. L’uomo mi condusse sino a quest’ultima. Era a due piani e sembrava molto antica, un grande roseto si trovava davanti alla facciata e incorniciava due finestre. Entrammo, c’era una grande stanza, con il soffitto piuttosto alto, un tavolo e solo alcuni mobili. Sembrava che l’uomo conoscesse bene quel luogo perché si avviò verso il fondo della stanza e da un mobile trasse una scatola di cartone, tutta rivestita con stoffa rossa.
- Siediti - mi disse – guardiamo cosa c’è in questa scatola.
La aprì, era ricolma di fotografie molto vecchie e ingiallite.
C’erano ritratti di persone, uomini, donne, bambini che non avevo mai visto, tutte vestite con abiti che non si usavano più, altre fotografie di oggetti e abitazioni di qualche luogo che non conoscevo.
Guardavo quelle immagini e non sapevo a cosa pensare, quale significato potevano avere per me, poi mi capitò in mano la fotografia di un bambino.
A vederlo aveva pressappoco la mia età. Anche i capelli erano chiari come i miei e leggermente ondulati. Anzi ad osservarlo bene mi somigliava proprio, di più, se non fosse stato per il vestito avrei detto che ero proprio io. Rimasi colpito nel vedere la fotografia di un bambino che mi somigliava così tanto. L’uomo colse lo stupore del mio sguardo e disse:
- Ti piace? Quello sono io da bambino.
- Mi… mi somiglia un po’ – dissi balbettando.
- Si, un po’ – confermò l’uomo.
Girai la fotografia e lessi una data: 1912 e poi un nome, Candido.
- Anche io mi chiamo Candido! – esclamai.
L’uomo sorrise, poi si alzò di nuovo e sempre dallo stesso mobile trasse una scatola di biscotti, la aprì e mi invitò a mangiarne:
- Sono buoni – disse.
Ne assaggiai uno, era veramente buono, come non ne avevo mai mangiati, ne presi ancora un altro e un altro ancora, anche l’uomo mangiava e rideva. Quando la scatola fu finita disse:
- Vieni dobbiamo andare, tuo padre ci aspetta.
Ripose la scatola con le fotografie e anche quella dei biscotti, pure se era vuota, poi uscimmo dalla casa e tornammo nella radura, quando ci inoltrammo nel bosco mi sembrava più piccolo di prima, forse perché ci ero già passato, tanto che nello spazio di pochi istanti raggiungemmo il cancello di ferro e uscimmo nel cortile, poi di lì nella via.
Quando svoltai l’angolo della strada vidi mio padre sotto i portici che guardava dall’altra parte.
- Ciao – mi sussurrò l’uomo – ora và.
- Ciao – risposi.
- Papà.
- Ah Candido, vieni, non ti allontanare, che già quel signore ti ha quasi buttato a terra. Chissà dove andava così di fretta, è già sparito.
- Ma papà non mi hai cercato? – chiesi.
- No, perché? Mi sono solo voltato un momento – rispose.
Rimasi colpito dalla risposta, poi realizzai che anche se io credevo di essermi allontanato per molto tempo, per mio padre quel tempo non era affatto trascorso e per lui io ero sempre stato lì. Ma allora, cosa era accaduto?
- Papà ci siamo già stati in questa città? – domandai.
- No è la prima volta che veniamo, ma è molto bella, penso che ritorneremo ancora.
- Papà, senti, ma come mai mi chiamo Candido?
- Ah che domanda…è una storia strana, pensa che tua nonna aveva un fratello che portava il tuo stesso nome. Per un incidente accadutogli mentre aiutava i suoi nel lavoro dei campi è morto che era ancora bambino, a soli otto anni. Poi nessuno nella famiglia, per un motivo o per l’altro ha dato più questo nome ai suoi figli e solo alla tua nascita, io e mamma, abbiamo pensato che sarebbe stato bello ricordare quel lontano pro-zio.
- Ma quando è morto di preciso lo zio Candido?
- Eh non ricordo, mi pare nei primi anni del secolo.
- Nel 1912?
- Si, nel 1912, giusto, ma tu come fai a saperlo?
- Niente, niente, ho tirato a indovinare.

Dopo il sonno mi svegliai presto e notai che la fotografia appoggiata alla scrivania era caduta. La sollevai e dandole ancora un’occhiata prima di uscire ebbi la certezza che oggi un’idea per il mio racconto, mi sarebbe certamente venuta.

Le Tre Sveglie

Le tre sveglie stavano allineate in alto sulla libreria, segnando ciascuna un’ora diversa. Le guardavo ogni tanto già da due notti, perché avevo in testa una convinzione che quanto più sembrava assurda, tanto più temevo sarebbe diventata reale. Le sveglie erano ferme da mesi, anzi da anni e naturalmente non sapevo minimamente a chi fossero appartenute dato che le aveva posate lassù mia madre tempo prima, come abbellimento - a suo dire - della casa. Eppure sentivo che quelle lancette non si erano fermate lì a caso, sapevo che qualcosa avrebbero voluto dirmi.

Nel letto davanti a me il residuo di mio padre respirava a fatica, ormai immerso nella sua incoscienza da cui riemergeva di tanto in tanto solo per pochi attimi. Lo guardavo e non potevo credere che quell’uomo tanto forte e pieno di vita ci avrebbe lasciato di lì a poco. La malattia inesorabile, lo aveva trasformato in brevissimo tempo nell’ombra di sé stesso, ma a noi, in quelle ore, quasi sembrava che questa fosse la sua normalità e anche in quello stato, che invece di normale non aveva niente, lo avremmo tenuto con noi per sempre, pur di non perderlo. Poi all’improvviso ci ricordavamo che no, quello non era più lui e ripensavamo con dolore alla sua vita vera che ancora era così vicina nel tempo, ma che era finita all’improvviso in quell’estate così dolorosa .

C’era nella casa un’aria strana, molte persone venivano e tutti, come anche noi, si mostravano molto affaccendati, premurosi, positivi, forti. Era un modo convinto e inconsapevole di nascondere la tragedia; di affrontare e superare un momento difficile e che si sarebbe concluso in maniera dolorosa; un nascondere a nostro padre e a noi stessi, ciò che tutti – e anche lui – sapevamo.

La casa in cui abbiamo vissuto quei momenti, in realtà non era più nemmeno la sua casa, quella che si era costruito con le sue mani e dove avevamo vissuto insieme per trent’anni. No, era una casa che, sempre lui, aveva sistemato da poco per completare la sua esistenza con mia madre, nel naturale passaggio che si fa quando i figli diventano adulti e creano le loro famiglie.
Nella grande stanza di soggiorno al piano terreno, avevamo collocato anche il suo letto, perché ad un certo punto non gli riusciva più di salire le scale.
Negli ultimi giorni non mi ero più mosso dalla casa. Non volevo perdere nemmeno un secondo del tempo che rimaneva e continuamente ripensavo a quanto che avevamo fatto per la sua malattia, se avevamo sbagliato, se si sarebbe potuto fare meglio, perché ce n’eravamo accorti così tardi, se per colpa nostra o solo perché era inevitabile.
Sono pensieri che non mi hanno più abbandonato e ancora mi tornano spesso alla mente anche adesso che sono passati già molti anni.
E ripensavo anche alla mia vita con lui e su di essa, per fortuna, non avevo molti rimpianti, ma solo grande nostalgia, anche se forse in certi momenti qualche parola in più tra noi sarebbe stata utile e bella.

La prima crisi fu verso l’una di notte, pensammo che fosse arrivata l’ora tanto temuta, durò alcuni minuti, ma poi egli si riprese. Io guardavo le sveglie allineate sopra le nostre teste: una e venti, cinque e mezza, quattro e quaranta, erano le ore in cui si erano fermate le lancette, anni prima.
Stavo fermo accanto al letto di mio padre e con me nella stanza c’erano altre persone, come era stato sempre in quei giorni, mio fratello, nostra madre, il fratello di mio padre.
Aspettavamo.
La seconda crisi è arrivata verso le cinque, ed è stata più lunga e mano a mano che passavano i minuti il suo respiro diventava sempre più faticoso, difficile.
Capivamo che era finita, ma non volevamo accettarlo.
Poi mio fratello mi chiese di lasciarlo andare, perché non potevamo più trattenerlo con noi.
Io gli stringevo la mano e lo liberai.
Anche il suo cuore lo ha lasciato andare. Infine con la mano sinistra gli ho chiuso gli occhi.
Allora ho alzato lo sguardo sul mobile, la sveglia in mezzo segnava le cinque e mezzo. Al polso anche il mio orologio segnava le cinque e mezzo.
Dopo qualche istante io e mio fratello siamo usciti fuori, la notte era fredda, ma si vedevano le stelle, capimmo che ormai solo lassù avremmo ritrovato nostro padre.
Siamo rimasti in silenzio per molto tempo, poi siamo rientrati in casa.
Sono andato sul mobile ed ho preso le sveglie e in un impeto di dolore le ho gettate via.

Non le ho volute tenere anche se forse anche le altre due segnavano ore importanti della mia vita.

venerdì 19 giugno 2009

Il Piave mormorava...

“Il Piave mormorava caldo e placido al passaggio, dei primi fanti il 24 maggio…”.
Avevo circa 10 anni quella domenica pomeriggio, quando arrivai in casa del nonno, correndo e cantando.
- Nonno, nonno! Hai sentito che bella questa canzone. L’hanno suonata in piazza questa mattina i soldati per celebrare l’anniversario della vittoria. La conoscevi già?
Il nonno non seppe trattenere una risata esclamando:
- Oh, benedetto figliolo, da quanto tempo non sentivo cantare questa canzone! Certo che la conosco e come non potrei. Vieni, vieni, siediti che ti racconto – e intanto aveva aperto la credenza per prendere una scatola di torcetti al burro.
- Ascolta, quel lontano autunno, proprio qui nella piazza del paese, la gente non perdeva occasione per intonarla e tutti sembravano pazzi di gioia per la recente fine della guerra ed io li sentivo cantare mentre seduto sulla panca davanti al muro della casa mi godevo gli ultimi raggi di sole che la stagione ancora concedeva. Anche io ero da poco tornato dalla guerra e la ferita all’avambraccio destro mi provocava ancora dolore, anche se era ormai vecchia di un anno e del tutto rimarginata.
In quei giorni tutti cantavano e addirittura a sentire raccontare la guerra pareva che fosse stato tutto bello, che fosse stata solo un’avventura. Sì, la guerra era stata vinta e sembrava che nell’euforia della vittoria tutti avessero dimenticato le sofferenze, i massacri, i morti che ci avevano accompagnati in quegli anni. La canzone era bella, ma la ferita mi faceva male e io tornavo in continuazione con la mente a ciò che avevo vissuto e l’anima, più che la carne, per questo mi doleva.
- Nonno, raccontami come è andata allora? – domandai con la bocca piena di gustosi torcetti.
- Dovevo vedere Trieste! Sembrava che solo per lei dovevamo combattere nell’agosto del 1917 sull’altopiano del Carso. I nostri comandanti cercavano in tutti i modi di instillarci in testa ancora un poco di quello spirito combattivo che la continua vista dei morti e le sofferenze ci avevano del tutto fatto perdere.
- Ma questo – ripetevano – sarebbe stato lo sforzo decisivo, la spallata finale che avrebbe travolto gli austriaci e ci avrebbe finalmente condotti a Trieste.
- E chissà come era Trieste! Ce la immaginavamo come una città fantastica dove gli abitanti ci attendevano con ansia, per scatenarsi al nostro arrivo in una festa bellissima, ma sinceramente io non credevo affatto che sarebbe stato così facile e che avremmo finalmente travolto gli austriaci. Ero sotto le armi da tre anni e troppe volte avevo sentito frasi simili senza mai vedere altro che giovani mandati al massacro e troppi, troppi compagni perduti. Invece l’unica cosa certa pareva essere la perdita di senno dei comandanti che si ostinavano a farci combattere una guerra che sembrava non avere mai fine. In quei tre anni avevamo girato come trottole tutto il fronte italiano comandati ad una serie continua di spostamenti che davano l’impressione di non avere alcuna logica: dall’Isonzo ad Asiago, dal Pasubio al Cadore, da Gorizia allo Stelvio, tutti i luoghi avevano lo stesso aspetto denso di morte e tragedia. Ora toccava al Carso.
Io ero piccolo ma vedevo il nonno che faticava a parlare e gli luccicavano gli occhi, anche se erano passati più di cinquanta anni da quei momenti. Allora, quasi a voler spezzare l’angoscia, si ricordava di un qualche episodio divertente.
- Pensa che una volta, durante il nostro girovagare ci capitò persino di incontrare il re! Si, perché il re si era trasferito presso il fronte all’inizio della guerra per seguire da vicino le operazioni e quel giorno, mentre eravamo di pattuglia, ci fecero sistemare perché poco avanti a noi si era fermato il re, per pranzare.
- Ma era sul cavallo? – domandai io.
- Macchè, rimasi molto colpito quando lo vidi: in mezzo al prato erano distese alcune coperte e sopra erano posati due cestini con del cibo. Alcuni uomini in uniforme facevano corona ad un uomo di mezza età seduto su uno sgabello che quando ci scorse si alzò.
- Quello è il re? – pensai. Apparve un ometto decisamente piccolino, era Vittorio Emanuele III. Poi egli si avvicinò e domandò i nostri nomi e da dove venivamo. Quando gli dissi il mio paese si illuminò un momento e parlando in piemontese chiese se gradivo qualcosa da mangiare: “E’ solo pane e formaggio” ma io non avevo il coraggio di dire di sì. Allora insistette e mi fece strada, sulla tovaglia c’era del formaggio, del salame, delle uova. Accettai un pezzo di frittata con un po’ di pane che per l’emozione non riuscivo a trangugiare. Poi il re fu chiamato e si allontanò. Nella mia fantasia mi ero immaginato che i re fossero sempre solenni, vestiti con corona e mantello e ne rimasi profondamente scosso, ma anche un po’ divertito – concluse il nonno.
- Già che buffo – dissi anch’io, aggiungendo:
- Ma la ferita come te la sei fatta, nonno?
- Il mese di maggio venne la tragedia! Il Comando italiano stava preparando l’ennesima battaglia, ora so che poi venne chiamata la decima battaglia dell’Isonzo, quella che nelle intenzioni doveva essere risolutiva. Fummo ammassati nelle trincee come sardine. Mai avevo visto fino ad allora così tanti soldati tutti insieme. Eravamo talmente tanti che non riuscivamo neppure a sdraiarci per terra e dovevamo riposarci stando seduti o appoggiati al parapetto della trincea. E ad ogni ora che passava continuavano ad arrivarne sempre altri ed altri ancora. Di fronte a noi stava un monte piccolo ma con un nome che metteva paura “l’Hermada”: dovevamo conquistarlo ad ogni costo per aprirci la strada verso Trieste.
Anche il nostro nome era terribile “Lupi di Toscana” e proprio per questo ci venivano affidati i compiti più difficili.
La battaglia iniziò le prime ore del mattino, quando, come al solito si scatenò il bombardamento dell’artiglieria: migliaia di cannoni presero a sparare contemporaneamente su tutto il fronte. Il frastuono era terribile e dovevamo proteggerci le orecchie con pezzetti di stracci. Dopo un po’ non si vide più nulla tanto era il fumo che copriva le colline che ci stavano di fronte. All’improvviso si levò un vento fortissimo e contrario e fummo travolti dal fumo delle esplosioni. Addirittura molte granate dei cannoni, deviate da questo vento, iniziarono a cadere verso le nostre postazioni tanto che temevamo che ci avrebbero prima o poi colpiti, sempre che non fossimo già morti a causa del fumo velenoso.
Noi aspettavamo e in quell’attesa angosciosa mi chiedevo se mai sarei tornato indietro o se sarei morto quel giorno. Sapevo che la battaglia non sarebbe servita a nulla, perché sembrava impossibile riuscire sfondare le linee nemiche proprio questa volta, visto che mai ci eravamo riusciti in precedenza. Ma più di tutto non capivo perché i nostri comandanti si ostinassero a mandarci al massacro ben sapendo che contro le mitragliatrici e il filo spinato non c’era modo di passare, tentando e ritentando assalti anche quando la logica e l’esperienza erano contrarie. Possibile che non avessero pietà di noi? Possibile che non ci fosse modo di inventare una diversa strategia per attaccare gli austriaci? E quanto a noi, come era possibile che accettassimo ancora di andare all’assalto a morire inutilmente come migliaia di altri ragazzi avevano già fatto prima? Non c’era risposta! Non sono riuscito mai a darmi risposta. Intanto che pensavo bevevo un po’ di cognac e cercavo di farmi coraggio.
Nella trincea faceva un caldo terribile sotto il sole di maggio, la divisa di panno non ci faceva respirare o forse era la paura; la sete ci tormentava, ma non c’era acqua da bere: dovevamo andare all’assalto e non avevamo una goccia di acqua da bere!
Poi venne l’ora. Il tenente si appoggiò al parapetto guardando l’orologio e all’improvviso gridò “Savoia” e al grido ci lanciammo fuori. Molti ragazzi non avevano ancora compiuto un passo che vennero colpiti. Mi misi a correre come un pazzo in avanti senza neppure sapere dove andavo. Dappertutto si sentivano grida e si vedevano soldati cadere. Era terribile l’incessante rumore delle mitragliatrici: rat-ta-ta-ta, rat-ta-ta-ta. Se ci penso lo sento ancora adesso. Ma non so per quale strano caso del destino non fui colpito. Correvo e mi infilai fra due reticolati con alcuni compagni e giunsi, non so come, alla prima trincea nemica. Dentro c’erano gli austriaci e ci affrontammo con la baionetta. All’improvviso sentii un dolore fortissimo: un soldato nemico si era difeso infilandomi la baionetta nell’avambraccio destro.
Il nonno tirò su la manica e mi fece vedere la lunga cicatrice che sul lato interno dell’avambraccio partiva dal polso e terminava al gomito.
- Proprio in quel momento una granata esplose vicina a noi e numerosi uomini vennero uccisi saltando in aria come fossero di carta. Fui sepolto dai cadaveri che mi erano ricaduti addosso e quella fu probabilmente la mia salvezza. Stringendo in qualche modo la manica della giacca riuscii a tamponare la ferita. Tutto intorno la battaglia continuava. Pensavo che quello era veramente l’inferno e io c’ero caduto dentro, solo che non sapevo quale fosse la mia colpa. Credevo anche che la guerra non sarebbe finita mai, fino a quando anche un solo uomo fosse rimasto vivo. Poi persi i sensi. Non so quanto tempo rimasi incosciente, ma quando mi svegliai la battaglia era finita. Sopra di me sentivo un peso insopportabile, l’odore terribile dei morti lo era ancora di più. La gola mi ardeva dalla sete, mi mancava il respiro. Con grande sforzo a poco a poco mi liberai dai soldati morti che mi schiacciavano e cercai di alzarmi. Guardai fuori dalla trincea. La vista era insostenibile: migliaia e migliaia di soldati morti, italiani e austriaci, distesi a terra nelle posizioni più assurde, carbonizzati, con membra e pezzi di corpo sparsi ovunque e un fumo acre che aleggiava nell’aria. Da ogni parte si sentivano grida e gemiti. Avevamo vinto? Avevamo perso? Ma in quella tragedia chi poteva aver vinto? Che senso poteva avere la vittoria? C’erano migliaia di vite spezzate, tutto il resto non importava. Il monte Hermada stava dietro di me, minaccioso come sempre. Avevo sete, ma l’unica cosa che potei bere furono le mie lacrime.
- E poi come è finita? - domandai ancora, colpito da questo racconto.
- Di notte sono riuscito a rientrare nelle nostre linee e fui mandato all’ospedale militare. Per me la guerra era finita anche se durò ancora più di un anno, un nemico mi aveva ferito ma anche salvato. Poi, per fortuna, venne la pace. Ti racconto queste cose terribili perché servano da ammonimento, ricordati che a noi non sono bastate e abbiamo dovuto fare un'altra guerra per capire quanto fossero sbagliate e quanto male hanno causato. Voi ragazzi non dimenticate mai e non dimenticate mai le nostre sofferenze inutili.
Rimasi un po’ pensoso, poi nella mia testolina balenò una domanda.
- Nonno, ma dimmi una cosa: è bella Trieste?
Il nonno mi guardò amorevolmente e accarezzandomi la testa mi disse:
- Non lo so caro, non ci sono mai stato!

Libri e marmellate

Sono arrivato all’età di 42 anni senza avere mai fatto prima due cose interessanti: scrivere un libro e fare la marmellata.
Del primo non dirò molto. E’ arrivato da solo, quasi per caso, senza che nemmeno ci avessi mai pensato.
Si è scritto, si è stampato, ogni tanto lo rileggo, certo qualcosa cambierei, ma mi piace abbastanza. Parla delle guerre passate, che mi bombardano la testa e non finisco mai di studiare. A volte è come lo avesse scritto qualcun altro.
Altra questione è la marmellata.
C’è nell’orto una pianta di fichi, a ridosso del vecchio muro in mattoni della tettoia, sta lì nell’angolo esposta perfettamente a mezzogiorno e raccoglie tutti i raggi del sole che le arrivano.
I fichi sono un dono del cielo, dolcissimi, buonissimi, ma fragili come la vita che la devi cogliere giorno per giorno con la consapevolezza che quello successivo potrebbe essere già svanita.
Però nella mia famiglia nessuno ama troppo i fichi, tranne me. Da giugno a ottobre si instaura una gara fra il sottoscritto e la pianta di fichi. Io faccio del mio meglio, ma la pianta mi sovrasta: ne produce più di quanti io riesca a mangiarne con accanito impegno e perciò, alla fine, vince sempre lei.
La normale consumazione dei fichi è già anch’essa cosa complicata. Il frutto va gustato nel momento di massima maturazione ed allora è gelatina zuccherosa, morbida mousse che si scioglie in bocca al primo contatto. Ma non si può andare oltre, un pomeriggio di troppo è il nostro è da buttare, inutilizzabile e anche un po’ repellente. Anticipare troppo il mangiarli è altresì sciocco perché i frutti non ben maturi danno solo una pallida idea di ciò che saranno al momento giusto. E’ altrettanto impossibile cercare di conservarli per più di un giorno o due e la soluzione migliore è gustarli appena colti dall’albero, avendoli scelti ad uno ad uno a seconda dello stato di maturazione. E rassegnarsi a sacrificarne molti.
Allora l’estate passata, nel corso dell’estenuante battaglia, ho pensato ad un modo per protrarre la gara anche nell’inverno, quando io posso mangiare, ma la pianta non può produrre ed ho deciso di fare la marmellata!
Bene, fare la marmellata non è questione da poco se uno non si è mai cimentato. Se poi si è come me che già cucinare una frittata rappresenta una notevole complicazione, la cosa assume un carattere speciale.
Ad ogni buon conto ho recuperato fra libri e internet tre o quattro versioni della ricetta e mi sono messo al lavoro.
Il primo dubbio è stato riguardo alla definizione: “ma si dice marmellata o confettura?” Giusto per chiarire ho preso il dizionario ed ho consultato: secondo quanto c’è scritto marmellata e confettura sono sinonimi e perciò è come dire la stessa cosa, ma non essendone ancora convinto ho approfondito. Leggo su un ricettario che secondo la “classificazione della CEE” la marmellata è solo quella che si fa con gli agrumi. Per tutti gli altri frutti si dice confettura. Quindi “tecnicamente” io mi apprestavo a fare una confettura. Che iella! Mi piaceva di più la marmellata, confettura è troppo sofisticato, troppo commerciale. Marmellata è più fanciullesco. Va bene, deciso! La mia sarà “marmellata di fichi di Viotto” tanto non la devo vendere, me la devo mangiare io.
La prima produzione sperimentale è consistita in cinque vasetti, secondo la ricetta che prevedeva di lasciare i fichi in ammollo in acqua per un’intera giornata, poi farli cuocere con zucchero e aceto con calma, tempo e pazienza. Gira, gira nella pentola, con il cucchiaio di legno, il risultato è stato ottimo e i cinque vasetti non hanno superato la prova dell’inverno perché sono finiti che era ancora d’autunno.
Fatta la seconda produzione, di ben nove vasetti, ho sperimentato, perché a quel punto era inevitabile. Cercando ricette qua e là ho provato la marmellata (pardon, confettura) di banane - non male, ma forse troppo dolce ed esageratamente energetica - poi la variante con fichi e spezie - dal sapore particolare - quella di pomodori verdi (ma non fritti e lontano dalla fermata del treno) e la gelatina di vino fatta con mele e vino, appunto, e infine una marmellata “tecnicamente” vera, cioè quella di arance, che dopo i fichi, come bontà, metto subito al secondo posto.
Ma niente sovrasta i fichi, talmente buoni che poi ho voluto metterne via anche sciroppati, posati interi nei vasi, che quando li apri e li mangi - magari guarniti con del cioccolato fuso - sono un estasi del palato.
Insomma i vasi di marmellate e confetture ben ordinati in cantina si sono ridotti nel corso dell’inverno e ormai solo pochi stanno a testimoniare il primo anno di conserve.
Anche quest’anno siamo a giugno, sembra l’altro giorno che avevamo montagne di neve e poi pioggia a catinelle, invece, come sempre ho visto accadere, l’estate è arrivata.
Tutti i giorni controllo la pianta di fichi.
La battaglia sta per ricominciare.

Giugno 2009