Benvenuti

Questo è il mio blog personale, un blog di confine, dove proverò a pubblicare un pò di cose mie, per me e per chi le vorrà leggere.

Il Confine

...un confine, proprio perché si pone di fronte a una differenza, deve essere valicato, non deve essere ignorato ponendovi a limite la diffidenza, così come è valicato sistematicamente il confine che c’è fra il giorno e la notte, tra il prima e il dopo, tra la terra e il mare, fra l’uomo e la donna, tra la vita e la morte.

domenica 4 settembre 2011

Agosto 1987

L’anno era il 1987, di questo sono sicuro. Il giorno non so, intorno al 20 di agosto, più o meno; d’altra parte tornavamo sempre dal mare dopo ferragosto, perciò i giorni erano quelli, ma poi adesso, a distanza di anni, giorno più o giorno meno che differenza può fare? Nessuna. Il fatto, triste, era che comunque per me l’estate era finita. Quando tornavi dal mare avevi solo rotture di scatole davanti agli occhi; prima i lavori nell’orto, immancabili, noiosi, che mio padre e mia madre mi costringevano a fare, perché “Si deve dare una mano”: togliere le patate, zappare, fare la passata di pomodori, spremere, invasare, sterilizzare; tutti gli anni la stessa storia, con ottocento metri quadri di orto, mica una cascina. Poi ricominciava la scuola, l’università, la sessione di esami di settembre, l’inizio dell’anno accademico. Mio fratello non c’era, quella volta, non ricordo perché, forse era rientrato il giorno prima con un suo amico e noi, io, mio padre e mia madre, viaggiavamo sulla padana inferiore, come al solito: Isola Verde, Mantova, Cremona, solo lì prendevamo l’autostrada – quando la prendevamo – per uscire a Felizzano, in modo da risparmiare qualcosa sul biglietto, poi ancora statale, Asti, Carmagnola, tutti i paesi, fino a casa. Comunque quella volta l’avevamo presa - l’autostrada - e meno male perché la macchina già non andava avanti per conto suo, con la bella idea che aveva avuto mio padre prima di ripartire dal mare. Io pensavo a Valentina, l’avevo conosciuta lì nel campeggio. Una storia intensa, ma breve, da estate, cinque giorni in tutto, ma mi era sembrata chissà cosa e adesso pensavo se avrei ancora potuto rivederla: io a Torino, lei a Padova, quattrocento chilometri di distanza, dici niente. Non poteva abitare anche lei a Torino? O io a Padova, che tra l’altro mio padre a Padova c’era pure nato. Che sfiga.

Sulla radio avevo messo Ron “E’ l’Italia che vaaa, con le sue macchinine brum, brum”, ecco appunto, ma era già il periodo che cominciava a non piacermi più, Ron, dico, che pure negli anni prima era stato un mio idolo. Lo ascoltavo per rispetto, ancora, ma tra un po’ lo avrei mollato, specialmente se avesse continuato a fare canzoni del genere. E ha continuato, infatti.

La macchina arrancava sulla strada, con il carrello appendice dietro. “Cos’è il carrello appendice?” mi chiedi. “Già, si vede che sei proprio giovane, se non sai neanche cos’è un carrello appendice.” Ma chi era che non aveva il carrello appendice nel 1987? Nessuno, viaggiavamo tutti in fila sulla strada coi nostri carrelli appendice attaccati dietro alle macchine, caricati con le tende e tutto quello che serviva per un buon campeggio. Altro che i camper da cinquantamila euro di adesso.

La macchina arrancava, perché era una macchina del cavolo, poverina, non era neanche colpa sua, ma di chi l’aveva costruita: una Ford Taunus del 1978, cilindrata 1300 cc, con impianto a gas, puoi capire quanto poteva andare, praticamente un barcone americano, comoda eh, per carità, ma pesantissima e con un motore da utilitaria. Faceva al massimo i 120, con solo il conducente, figurati con tre sopra e il carrello appendice, caricato al massimo. E’ stata, la Taunus, la macchina che mi ha fatto prendere in antipatia le Ford, che ancora adesso, dopo venticinque anni e passa, non le posso vedere, perché sono quelle cose che ti rimangono nell’inconscio per tutta la vita e ti condizionano, come quelli che avevano comprato all’epoca il 127 o il 128 e gli veniva la ruggine e da allora non hanno mai più comprato una Fiat, o come lo yogurt, che mi ha fatto rimettere una volta che avevo cinque o sei anni e non l’ho più assaggiato e a dirla tutta non so nemmeno che sapore abbia, ma non ce la faccio lo stesso. Comunque la macchina arrancava soprattutto perché quell’anno il carrello appendice pesava un botto, un’esagerazione che se ci fermava la polizia e ci pesava ci sequestrava tutto, pure le patenti, a me e mio padre e anche a mia madre che pure non l’aveva e tutto questo perché lui, mio padre, prima di ripartire, si era fatto gola di una lastra di marmo, ideale per farci un tavolo. L’aveva vista là, buttata sotto una stuoia o da qualche parte e non aveva resistito. La lastra era bella, effettivamente, tipo travertino, lunga e larga un metro e cinquanta per ottanta, con i bordi smussati e levigati, veniva fuori un bellissimo tavolino. Peccato pesasse una roba esagerata, da doverla sollevare in due con massima fatica, ma non c’era stato niente da fare, s’era fatto gola come ti ho detto e aveva deciso di portarsela a casa, a cinquecento chilometri di distanza, caricata sul carrello appendice. La macchina arrancava e il carrello appendice seguiva arrancando. Non so se hai presente un carrello appendice – ma hai detto di no - con le sponde di alluminio e le ruote della vespa, un rimorchietto, insomma. Guidavo io, che avevo già la patente e da quando l’ho avuta ho sempre guidato io e mio padre a fare il passeggero. Era sera, non so verso le undici, più o meno. Ad un certo punto ho sentito tipo un botto e la macchina che tirava dietro di qua e di là, sbandando; ho mollato l’acceleratore, tenuto lo sterzo e mi sono accostato a destra. Siamo scesi: “Merda, abbiamo bucato una ruota del carrello”, abbiamo detto elegantemente, mai capitato prima in tanti anni, “Che sfiga nera”. La ruota bucata era bollente, anche l’altra “Non è che magari il peso, sai la tua lastra”, dico a mio padre. “Ma figurati il carrello è omologato per tre quintali”, “Eh, appunto” mugugno “Ce la fa benissimo” dice lui “Ah ho visto” rispondo. Comunque niente, dovevamo cambiare la ruota, non c’era altro da fare. Ora non so se hai presente dove si tiene la ruota del carrello appendice? No? Nel carrello appendice, ovviamente, dove vuoi tenerla, sotto tutta la roba, chiaramente, perché di solito non buchi mai la ruota del carrello appendice, mai capitato prima d’allora. Allora ci siamo messi a tirare giù la roba, poi abbiamo preso il crick, tutto sulla corsia di emergenza dell’autostrada, si capisce, mentre le altre macchine sfrecciavano e ci facevano ballare e noi niente giubbini rinfrangenti, al massimo il triangolo, sai nel 1987. Tra un sacramento e l’altro abbiamo cambiato la ruota e siamo ripartiti. Guidavo io. Avremmo fatto si e no cento chilometri, forse neanche, anzi direi proprio neanche ed ho sentito un altro botto, la macchina che sbandava, tirava tutta a destra. “Cavolo, cosa succede.” Ho frenato, mi sono accostato e siamo scesi. “Ma non è possibile, porca la miseria, ancora la gomma, sempre quella” e giù a sacramentare di nuovo, io, mio padre e anche mia madre che adesso se la prendeva pure a male con lui e con la sua lastra di pietra, perché ormai era chiaro a tutti che il problema era quello. Ed era sempre la stessa gomma, cioè quella che avevamo già cambiato, la ruota di scorta. Erano quasi le due, di notte. Ora non è che ti metti a cambiare la seconda gomma del carrello appendice alle due di notte sull’autostrada, soprattutto per un particolare: non avevamo, principalmente, una seconda gomma di scorta. E chi ce l’aveva? Nessuno, ovvio. Si sarebbe potuto andare a chiamare il soccorso stradale, alla colonnina poco più avanti, perché nel 1987 mica c’erano i cellulari. Ma scherzi? Neanche a parlarne: “Costa!” Così, non avendo alternative siamo rimasti a dormire in macchina, sulla corsia di emergenza, attendendo il mattino e soprattutto aspettando che ci venisse qualche buona idea. Per fortuna era ancora estate, il 20 di agosto o giù di lì, ti ho detto e albeggiava presto, ma di soluzioni non è che ce ne fossero molte: o chiamare il soccorso stradale e pagare o… cercare un paese e fare aggiustare la gomma. Il fatto era che non sapevamo minimamente dove stavamo, di sicuro in aperta campagna, in una zona sperduta, dato che non si vedeva né un borgo, né una casa a pagarla oro, neanche fossimo stati in Arizona o nel Nebraska, invece che nella pianura padana. Però c’era un ponte, poco più indietro, che scavalcava l’autostrada e se c’è un ponte e perché c’è una strada, e se c’è una strada… “Da qualche parte arriverà.” No? Così abbiamo scavalcato la recinzione dell’autostrada, che pure non si poteva fare, neppure nel 1987, io e mio padre, con la ruota in mano e mia madre ad aspettarci in macchina. Abbiamo seguito la rete e ci siamo portati sul ponte. Da lì si poteva dare un occhio in giro e allora siamo riusciti ad individuare due o tre cascine e un campanile, saranno stati due o tre chilometri: “Di là c’è un paese, sicuramente.” “Andiamo.”

Allora, fatti tu, due o tre chilometri con una ruota della vespa in mano: dice, ma non pesa tanto. No, non pesa tanto, ma dopo cento metri sei già lì che cambi mano; dopo duecento metri è un macigno, a trecento metri sei già morto. “Porto un po’ io.” “Dai adesso dammela” e così avanti, come fosse stato un blocco di marmo delle piramidi o la maledetta lastra di pietra che avevamo nel carrello appendice. Comunque in una mezz’ora di fatica finalmente siamo arrivati a ‘sto paese. Insomma dire paese è dirla un po’ grossa: c’erano dieci o dodici case, una cappella con il campanile e un meccanico. Benedetto, almeno lui. Però era chiuso per ferie. Comunque abbiamo provato a suonare, magari che al venti di agosto fosse già tornato. Dopo un bel pò è uscita una signora: “Mio marito è di là, ma è in ferie” dice. Per fortuna, spiegata la nostra situazione ha capito ed è andata a chiamarlo, lui ha aperto l’officina, ma era un meccanico e non un gommista e una camera della vespa proprio non ce l’aveva. “Ma più avanti c’è …” (ora il nome di quel paese proprio non me lo ricordo) “lì c’è uno che aggiusta le gomme, una camera l’avrà.” “Ma è distante?” fa mio padre. “Eh sono più o meno cinque chilometri.” Allora lui ci ha visto lo sgomento negli occhi: “Cinque chilometri? A piedi? Con la ruota della vespa in mano?” E gli è venuto da dire: “Se volete vi presto una bicicletta, così uno va in là e l’altro lo aspetta qui.” Benedetto, il meccanico. Buona idea, cavolo, veramente una bella idea. Ha preferito andare mio padre, io sono rimasto lì ad aspettarlo, in quella borgatina di quattro case in croce, sperduta non so neanche dove.

Forse, poi, a pensarci, non stavano neanche male in quel paesello sperduto nella pianura padana. Era un po’ come da noi, che doveva essere? Poche case, col suo giardino, l’orto, i cani, chi aveva le galline, chi, invece, due macchine. Però quella zona non mi piace, non mi è mai piaciuta, perché non si vedono le montagne. Cioè si vedono, perché a nord hai le Alpi con il Monte Rosa e appena a sud gli Appennini della Liguria e se poi fa bello, si scorgono comunque a ovest, verso Torino, verso di noi, le altre Alpi, le nostre, il Viso pure. Ma non è uguale, non sono lì a scandirti lo spazio preciso, a ripararti, proteggerti. Non mi piace, insomma. E poi non sapevo neppure di preciso dove stavamo. Il posto era sperduto, certamente e non avevi punti di riferimento. Mio fratello non c’era, che fortuna aveva avuto a risparmiarsi questa bella avventura. Poi l’estate era finita e questo mi rattristava, Valentina stava a Padova e io rientravo verso Torino. Mi veniva in mente una canzone che era uscita un po’ di anni prima e che ancora adesso mi mette addosso una tristezza infinita perché mi simboleggia la fine dell’estate: “Non c'è più la vela bianca con l'inverno c'è il gabbiano e l'estate del mio amore è un ricordo ormai lontano. Il vento cancella dalla sabbia i ricordi ma dal cuore no, il vento non puòdi Casadei, forse, che neppure mi piace, ma cavolo che angoscia. Quell’anno poi, ancora peggio.

Sono rimasto lì almeno un’ora, il tempo che ci ha messo mio padre fra andare, trovare il gommista, far riparare la ruota e tornare. Poi abbiamo ringraziato il meccanico e siamo ripartiti. Non è che adesso la gomma fosse più leggera, pesava come prima, naturalmente e cento metri con quella roba in mano sembravano sempre dieci chilometri. Comunque siamo arrivati, abbiamo passato il ponte e scavalcato la recinzione. Mia madre era seduta sul ciglio della strada e ci aveva dati ormai per persi, svaniti nel nulla, perché tra una roba e l’altra eravamo stati via quasi tre ore. Abbiamo rimontato la gomma maledetta, facendo gli scongiuri che non si bucasse un’altra volta, poi siamo ripartiti. Non ho mai superato i settanta, per non scaldare le ruote del carrello appendice. Dopo neanche dieci chilometri abbiamo visto il cartello Alessandria. Almeno abbiamo capito dove eravamo, non era né l’Arizona né il Nebraska, solo pianura padana. Siamo usciti a Felizzano, come al solito; un altro paese che non ho mai visto in vita mia, se non per il casello dell’autostrada. Guidavo io, ma avrei tanto voluto dormire.

Quest'anno mi sono deciso e sono andato a pulire il giardino dietro casa di mia madre. Quando c’era mio padre quel posto era un gioiello, sempre perfetto, lucido, ci andavamo a mangiare, c’era il formo per la pizza e tutto l’occorrente. Poi dopo che lui è mancato nessuno l’ha più utilizzato ed è diventato una discarica. Chiunque avesse qualcosa che non sapeva dove mettere la portava lì. L’altro giorno, eravamo proprio intorno al venti di agosto, mi sono messo all’opera. Togli questo, butta quello, alla fine è ritornato un posto civile. Ad un certo punto da sotto la tettoia chi ti sbuca? “Eh chi ti sbuca?” dirai. La lastra di pietra, tipo travertino, che poi mio padre aveva fatto diventare un tavolo vero e proprio, con la sua bella struttura in ferro per le gambe. Un tavolo pesantissimo, come allora, perché non è che una lastra di pietra si alleggerisce in venticinque anni. Allora l’ho ripulito ben bene e l’ho tirato fuori a fare la sua bella figura in giardino. E c’è pure il carrello appendice, con le ruote della vespa, anche se nessuna macchina potrà più trainarlo, perché chi è che oggi va in giro con un carrello appendice attaccato dietro? Nessuno, no?

Il vento cancellaaa dalla sabbia i ricoordi ma dal cuore nooo, il vento non puòòò.

lunedì 9 maggio 2011

Emigrante

Passarono insieme ancora i Santi, poi partirono una mattina di novembre. Il cielo era terso e l’aria fredda della notte aveva portato con sé un velo di brina che si era depositata uniforme sui campi e sugli alberi. Una nebbiolina bassa non impediva di vedere la corona delle montagne. Erano d’accordo che tutta la famiglia li avrebbe accompagnati sino alla stazione di Piscina dove passava la ferrovia. Carlo era già agitato per la sola idea di prendere il treno, al resto del viaggio non aveva ancora pensato. In vita sua non si era mai mosso da Buriasco se non per andare qualche volta a Pinerolo o una volta all’anno a Faule dallo zio Osvaldo. Il treno l’aveva visto poche volte, quasi sempre dalle parti di Cercenasco, dove passava la linea che da Airasca portava a Saluzzo; c’era una piccola locomotiva che emetteva dal fumaiolo un fumo bianco e altissimo, mentre trainava tre corti vagoni e in prossimità delle strade o delle stazioni lanciava un fischio che certe volte, quando il vento tirava dalla parte giusta, si sentiva fino ad Appendini. Una volta era stato con barba Anselmo alla stazione di Pinerolo ed era stata tutta un’altra cosa: Pinerolo era città, mica paese e la stazione era grossa e imponente, con tre binari che si attestavano sulla banchina. Qui i treni che arrivavano dovevano poi ripartire al contrario dopo che i ferrovieri avevano compiuto complesse e affascinanti manovre di sgancio della locomotiva di testa e di riaggancio nella direzione opposta di un’altra, che usciva da un magazzino laterale.
Nei giorni precedenti alla partenza era andato ai Paglieri a salutare gli altri nonni. Nonno Carlo gli aveva raccomandato di stare attento e di riguardarsi, poi gli aveva dato dei soldi, nonna Mafalda gli aveva regalato un maglione e delle calze di lana spessa, perché secondo lei «In America fa più freddo che qua.» Poi era passato da don Mario a prendere i nomi e gli indirizzi di quelli che già erano partiti e aveva fatto un giro dalle persone che conosceva. Tutti gli avevano augurato buona fortuna e gli avevano messo in mano qualche moneta «Per il viaggio e le necessità.»
Aveva solo diciotto anni, ma andava con Alfredo e questo bastava per tranquillizzare tutti, infatti Alfredo aveva trentotto anni ed era un uomo che ne sapeva della vita; e decisamente! Intanto conosceva l’Italia perché era stato militare molti anni prima quando Carlo era nato ed era andato in Veneto e poi anche giù a Roma nei tre anni che aveva passato sotto le armi e perciò poteva ben dire la sua su come va il mondo e cosa è bene fare o non fare. Inoltre sapeva leggere e scrivere e quella non era una cosa di poco conto per un uomo della sua età.
La strada per Piscina richiedeva circa un’ora di marcia e così si incamminarono alle sette per essere in tempo al treno che passava alle otto e mezza. Carlo si era procurato un piccolo baule di legno, dove sua madre aveva riposto un paio di braghe, due maglie di lana, due paia di mutande, tre paia di calze, il maglione e i calzettoni di nonna Mafalda, una coperta, un asciugamano e un pezzo di sapone: tutto quello che si sarebbe portato via.
Prima di avviarsi, il vecchio barba Anselmo, che non sarebbe venuto alla stazione, perché ormai troppo anziano lo aveva chiamato da parte e gli aveva consegnato un sacchetto con 120 lire «Tieni, queste sono per te, le ho messe via in tutti questi anni, pensando di lasciartele in eredità alla mia morte, ma ti saranno utili ora. In gamba mi raccomando.»
Camminavano in silenzio, perché nessuno aveva troppa voglia di parlare. Anna guardava quel figlio che stava per partire a fare l’emigrante, domandandosi se mai lo avrebbe ancora rivisto prima di morire. Bartolomeo faceva il duro, ma in cuor suo si chiedeva se fosse stata una buona idea quella di spingere Carlo a una decisione tanto importante.
Tutto era nato alla fine di agosto, tre mesi prima, ne aveva parlato una sera a cena: «Sapete, mi hanno proposto di andare in America a cercare fortuna, qui in fin dei conti si riesce a mala pena a mangiare, non so neanche quando potrei sposarmi. Dicono che laggiù ci sia tanto di quel lavoro e con delle buone paghe, che nel giro di quattro o cinque anni riesci a comprarti una bella cascina. Allora io ho pensato: sono giovane, se vado laggiù metto da parte dei bei soldi e poi torno e compro una cascina, anche piccola e voi tutti venite a vivere insieme a me.»
Il padre lo aveva guardato senza parlare, mentre sua madre aveva esclamato: «Oh Gesù, Maria nostra Signora Vergine, Madre!» tutti si erano volti verso di lei che era rimasta ferma col cucchiaio in mano e che senza dar peso agli sguardi aveva continuato «Ma chi è che ti ha messo in testa queste robe? Andare fino in America poi! E noi qui come facciamo nelle terre senza di te e con i tuoi fratelli e le tue sorelle che sono ancora ragazzi?»
«E’ Alfredo, tuo cugino, è lui che me lo ha proposto; dice che mi presta anche il soldi per il viaggio.»
«Ah, ma lo sistemo io appena lo vedo quel figlio del demonio. In Argentina. A fare l’emigrante, lo porta!»
Erano rimasti tutti zitti, anche barba Anselmo e nonna Rita, mentre i cucchiai tintinnavano nei piatti e nessuno aveva più il coraggio di dire qualcosa.
Era stato Bartolomeo a rompere il silenzio: «Carlo non ha poi tutti i torti» esclamò «qui, per bene che gli vada, potrà prendere il mio posto e poi? Un anno dopo l’altro ad arare, seminare, raccogliere e… dividere.»
«Ma noi abbiamo la terra, le bestie» aveva detto Anna quasi piagnucolando.
«Come no! E teniamole pure da conto, per carità. Ma da sole ci danno da mangiare? Lasciamo stare, dai. Lui invece adesso è giovane, non è ancora moroso, può andare dove vuole e fare fortuna, noi ci arrangeremo, i suoi fratelli sono ragazzi, ma già abbastanza grandi e ci daranno una mano, solo Agostina e Anna sono piccole, ma cresceranno anche loro. Se infine avrò bisogno, chiamerò qualcuno. E se invece torna con la fortuna allora faremo una grande festa tutti insieme. Vai, va, informati come fare per andare in America.»
Arrivarono alla stazione con buon anticipo ed acquistarono i biglietti. Poi giunse il treno da Pinerolo: sbuffava ed emetteva una bianca nuvola di vapore dagli stantuffi e dal fumaiolo, tanto intensa che tutti i passeggeri in attesa ne furono avvolti e per un attimo ogni persona scomparve alla vista di ciascuno degli altri. La locomotiva sembrava non voler fermare la sua corsa ed invece i vagoni si arrestarono giusti giusti sulla banchina, proprio in corrispondenza dei passeggeri. Sul treno c’era molta gente, tutti viaggiatori diretti a Torino, qualcuno si affacciava dal finestrino per guardare, ma i più rimanevano indifferenti negli scomparti.
Prima di salire si salutarono e si abbracciarono. Per prima Anna, poi Bartolomeo e infine i fratelli e le sorelle che stavano tutti là, ordinati in fila: Battista, Teresa, Michele, Anna Maria, Angela, Giacomo, Agostina, Giovanna e per ultime nonna Rita e Mariuccia. Carlo si mostrò forte e ricacciò in gola quelle lacrime che prepotenti salivano a gonfiargli gli occhi.
Bartolomeo strinse la mano ad Alfredo, raccomandandogli il figlio: «Stagli dietro più che puoi.»
«Non preoccuparti, da adesso in avanti è come se fosse figlio mio.»
Il capostazione ordinò il “tutti in carrozza” e il treno si mosse con uno scossone, poi prese volocità. Dal finestrino Carlo rimase fisso a guardare la sua famiglia, ferma sul marciapiede della stazione che diventava sempre più piccola sino a che scomparve del tutto.
Mentre il treno correva verso Torino, Carlo osservava la campagna circostante e cercava di imprimersi nella mente ogni dettaglio di quei luoghi che non avrebbe più rivisto per chissà quanto tempo. Campi coltivati, stradine polverose, boschi di pioppi, filari di gelsi e di viti, cascine isolate, rossi caselli ferroviari, piccole stazioni, scorrevano veloci davanti ai suoi occhi. All’improvviso percepì anche l’odore; quello a cui non aveva fatto caso sinora. Era un odore strano, forte, di legno acido e ferro, carbone e olio, che impastava il naso e la bocca e lo avrebbe accompagnato a lungo e che identificò, infine, come l’odore stesso del viaggio.
Dopo poco più di un’ora il piccolo convoglio entrò finalmente nella stazione di Porta Nuova. Carlo e Alfredo scesero dalla carrozza e domandarono ad un capostazione in divisa a che ora partiva il treno per Genova: «Fra mezz’ora esatta, signori, binario sette» rispose questi
« Oohi abbiamo tempo per fare un giro » dichiarò Alfredo eccitato.
Attraversando la stazione Carlo vide che era molto grande e un’infinità di persone andava e veniva dalle banchine dove innumerevoli convogli arrivavano e partivano fra stridore di freni e grandi sbuffi di fumo. Vi erano persone di tutti i generi: distinti signori ed eleganti signore con ampi cappelli, militari, contadini, operai, bambini, venditori ambulanti, suonatori di organetto, mendicanti, un’umanità varia popolava quel luogo che gli ricordava tanto una festa di paese. Uscirono dalla grande stazione e il ragazzo vide per la prima volta nella sua vita Torino. Era come se l’aspettava? Non sapeva neppure lui. Era comunque qualcosa di nuovo, entusiasmante, certamente sorprendente. Di fronte alla stazione c’era una piazza, non troppo grande, ma abbastanza ampia; tutti i palazzi che la circondavano avevano i portici, ma Carlo venne subito attratto dai numerosi tramvai che andavano e venivano in tutte le direzioni. Questi erano trainati dai cavalli, ma le vetture scorrevano su binari come quelli del treno, così che la loro direzione era del tutto obbligata. Nelle strade c’erano anche molte persone che precedevano traballanti veicoli a due ruote che, gli disse Alfredo: «Si chiamano biciclette» - un mezzo di locomozione che certo agli Appendini non aveva mai veduto - e ad un certo punto udirono il suono di una tromba e videro una specie di calesse rumoreggiante ancora più sorprendente, che avanzava senza che fosse tirato dai cavalli: «Quella, invece, è un’automobile» gli indicò il cugino.
«Robe da matti!» esclamò Carlo che a quel punto era totalmente affascinato dalla città.
Ma mezz’ora passa in fretta e non c’era tempo per vedere altro. Rientrarono nella stazione, il loro treno era già pronto sul binario; salirono e aspettarono la partenza. Nell’attesa Carlo pensava che tra poco sarebbe stato Natale e si domandava dove lo avrebbe passato quel Natale del 1907.
Il viaggio verso Genova durava circa quattro ore e dopo un po’ che avevano lasciato Porta Nuova, Carlo osservò che il paesaggio cambiava; la pianura lasciava il posto ad un saliscendi di morbide colline che il treno in parte seguiva e in parte no, lanciandosi su alti viadotti e infilandosi in qualche galleria. Qui la terra era più sabbiosa, grigia e molte erano le vigne che coprivano i rilievi che si susseguivano in una sequenza che pareva non avere mai fine.
Il treno fece una fermata. Carlo lesse il nome della stazione: Asti. Dopo circa mezz’ora il convoglio si arrestò nuovamente, Carlo si affacciò ancora dal finestrino e lesse: Alessandria. Qui il convoglio cambiò direzione, girò a destra e si lanciò dritto verso il sole. Ad un certo punto egli si accorse che iniziavano altre montagne, che avevano richiesto ai costruttori della ferrovia ponti e gallerie a non finire. Si infilarono in una vallata aspra e selvatica, dove ogni tanto apparivano dei minuscoli borghi formati da case colorate che si tenevano l’una all’altra e tutte insieme stavano aggrappate ad una rocca scoscesa che non si capiva come facessero a rimanere lì, immobili, invece di rotolare a valle.
Poi il treno sbucò da un’ennesima galleria e all’improvviso Carlo vide il mare: «E quello? » domandò ad Alfredo. «Il mare, è lì che andremo.»
Il ragazzo non riusciva più a staccarsi dal finestrino cercando di cogliere ogni immagine del mare che gli si presentava alla vista, mentre il treno compiva le sue giravolte per scendere dall’Appennino sino a Genova.
All'imbocco della città il convoglio rallentò vistosamente, procedendo poi a passo d'uomo per un lungo tratto. Carlo osservava incuriosito le banchine del porto e le officine circostanti dense di lavoratori, di ferro e carbone, dalle quali emanava un odore acre e forte che riempiva l'aria, i polmoni e le viscere.
Uscirono dalla stazione che erano le quattro del pomeriggio e Carlo osservò che la città appariva molto diversa da Torino. Anche qui c’era un brulicare di gente, ma ancora più fitto e con persone decisamente più variopinte; invece delle grandi piazze e delle ampie vie che aveva veduto quella mattina, Genova presentava un intrico di vicoletti aggrovigliati fra il mare e la collina, taluni talmente stretti che pareva impossibile persino di potercisi infilare, dove le case alte e serrate si appoggiavano le une alle altre precipitando giù, giù fino al porto. In alto, fra gli edifici, erano tesi dei fili su cui le donne avevano posto i loro panni ad asciugare e che ritraevano facendoli scorrere mediante carrucole. Gli sembrava di essere in un altro mondo rispetto a casa sua e si accorgeva che nello spazio di mezza giornata aveva veduto più cose che in tutta la sua vita sino ad allora. Non mancò di osservare che faceva decisamente meno freddo che su, in Piemonte.
«Scendiamo fino al porto per domandare informazioni, poi cerchiamo un posto per mangiare» disse Alfredo.
A Genova la gente era la più assortita possibile, se, infatti, vi erano distinti signori con cappello e marsina, che si capivano essere uomini d’affari o ricchi commercianti, si vedevano poi frotte di personaggi piuttosto bizzarri, vestiti con maglie o canottiere a righe, scuri, con la pelle bruciata dal sole, i capelli più lunghi del normale e sovente con un buffo berretto in testa, tipo una ciotola rovesciata, con il fondo piatto e al centro una specie di palla fatta con mille fili intrecciati, il tutto rigorosamente di colore blu scuro. In alcuni vicoli c’erano delle donne appoggiate agli usci delle case, avevano le labbra colorate di rosso ed esibivano senza troppo pudore i seni bianchi alla vista dei passanti. Carlo, con lo spirito dei suoi diciotto anni, ne rimase piuttosto colpito e continuava a voltarsi indietro per guardare: «Alfredo, quella mi ha fissato» diceva al cugino «Vieniii, lascia stare» gli rispondeva lui trascinandolo via. Talvolta, invece, qualche uomo si fermava a parlare con una di queste donne e dopo qualche parola entravano in casa rimanendo inghiottiti nell’oscurità dei piccoli androni. L’odore acido di fumo, urina, sudore, muffa, sporcizia, salsedine impregnava l’aria dei vicoli, rendendola pungente alle narici.
Al porto c’erano dei gabbiotti delle varie compagnie di navigazione che facevano rotta in tutto il mondo. Ormeggiate sui moli stavano decine di navi. Tutte di ferro, erano così grandi che al loro confronto anche i treni apparivano minuscoli. Dopo qualche ora riuscirono a sapere che c’era un vapore, il Mendoza, che sarebbe partito per l’Argentina di lì a quattro giorni. Contenti della notizia cercarono quindi una bettola in uno dei vicoli, dove ordinarono due piatti di minestra di fagioli e un mezzo fiasco di vino, accomodandosi al tavolo in una sala fumosa e sovraffollata; in un angolo due donne seminude ridevano e scherzavano con degli uomini dall’aspetto affatto raccomandabile; poterono anche affittare dallo stesso oste una stanzetta in una soffitta per aspettare il giorno della partenza. Nell’osteria, come dappertutto, c’erano dei personaggi alquanto untuosi che offrivano imbarchi per gli Stati Uniti o per l’America del sud e un lavoro sicuro appena sbarcati, ma Alfredo sapeva che non c’era da fidarsi di costoro e poi, ad ogni modo, la cosa non li interessava visto che avevano già un importante contatto in Argentina, perciò declinò qualsiasi offerta e pretesto di attaccare discorso.
«No, no, vede» diceva mostrando la lettera del cugino Antonio «noi abbiamo già il nostro contatto a Buenos Aires. Ormai ci stanno aspettando e non possiamo mancare.»
In quei pochi giorni Alfredo non fece altro che dormire, mentre Carlo, invece, vagò a lungo per il porto e gli piacque soffermarsi a guardare le grandi navi che arrivavano e partivano caricando e scaricando sui moli enormi quantità di merce, tramite strane gru che gli ricordavano giganteschi volatili appollaiati sul nido. In un'altra zona c’erano invece le imbarcazioni dei pescatori; queste partivano tutte le notti per gettare in mare le reti, ritornando poi sul finire della mattinata. Arrivati nel porto scaricavano il pesce che avevano già suddiviso per qualità e dimensione e subito altre persone lo portavano con dei carretti di legno nelle ghiacciaie sottoterra, dove poteva essere conservato per alcuni giorni. Carlo non aveva mai sentito l’odore del mare e del pesce e subito ne era rimasto nauseato «Un tanfo schifoso» considerava, «peggio di quello dei vicoli, che almeno all’odore di piscio sono abituato, ma a questa roba proprio no», ma poi nello spazio di un giorno o due si era assuefatto e gli dava meno fastidio, anche se il pesce non avrebbe avuto forse il coraggio di mangiarlo.
Appena fuori dal porto c’era un grande giardino. Già mentre scendevano dalla balze dell’Appennino, aveva osservato che la vegetazione era diversa e ben più rigogliosa rispetto a quella di casa, ma qui poté vedere meglio la straordinaria varietà di piante che popolavano il luogo. Lungo le rive, oltre il giardino e più in basso, si allineavano le piccole case dei pescatori, strette e colorate a tinte vivaci, con minuscole finestrelle scure dalle quali a volte appariva un vaso di gerani o la figura minuta di una donna che con l’occhio preoccupato scrutava la superficie increspata del mare. Fuori dalle case stavano le reti e gli arnesi della pesca; un vecchio, scavato e rugoso, intento ad un complicato rammendo, vide Carlo e gli disse: «Quest’anno non c’è buona pesca, il mare è stanco.»
«Già» rispose lui «speriamo che venga una stagione migliore» il pescatore non rispose e silenzioso riprese il suo lavoro.
Su tutto questo dominava la grande Lanterna che di notte, girando tutto intorno la sua lama di luce giallastra, indicava ai naviganti l’ingresso e l’uscita dal porto di Genova.
Venne finalmente il giorno della partenza. Carlo e Alfredo avevano già il biglietto di viaggio, perciò al molo della Mendoza furono avviati alla fila per l’imbarco della terza classe, dove una massa enorme di persone attendeva il proprio turno di montare sulla passerella per entrare nel ventre della grande nave. Salirono e un marinaio gli indicò dov’erano le camerate della terza classe; scesero giù due rampe ripide di scale e si ritrovarono in un vasto locale dove fra le numerose brande e un frastuono enorme di gente che si chiamava da una parte all’altra, si erano già sistemate molte famiglie. Individuarono un posto libero in fondo e aspettarono di sentire il bastimento muoversi, mentre il caldo divenne opprimente sin dai primi minuti. Dopo alcune ore di attesa finalmente uno scossone e una sirena avvisarono che la Mendoza lasciava il porto.
L’America li stava aspettando.

A mio nonno.