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Questo è il mio blog personale, un blog di confine, dove proverò a pubblicare un pò di cose mie, per me e per chi le vorrà leggere.

Il Confine

...un confine, proprio perché si pone di fronte a una differenza, deve essere valicato, non deve essere ignorato ponendovi a limite la diffidenza, così come è valicato sistematicamente il confine che c’è fra il giorno e la notte, tra il prima e il dopo, tra la terra e il mare, fra l’uomo e la donna, tra la vita e la morte.

lunedì 9 maggio 2011

Emigrante

Passarono insieme ancora i Santi, poi partirono una mattina di novembre. Il cielo era terso e l’aria fredda della notte aveva portato con sé un velo di brina che si era depositata uniforme sui campi e sugli alberi. Una nebbiolina bassa non impediva di vedere la corona delle montagne. Erano d’accordo che tutta la famiglia li avrebbe accompagnati sino alla stazione di Piscina dove passava la ferrovia. Carlo era già agitato per la sola idea di prendere il treno, al resto del viaggio non aveva ancora pensato. In vita sua non si era mai mosso da Buriasco se non per andare qualche volta a Pinerolo o una volta all’anno a Faule dallo zio Osvaldo. Il treno l’aveva visto poche volte, quasi sempre dalle parti di Cercenasco, dove passava la linea che da Airasca portava a Saluzzo; c’era una piccola locomotiva che emetteva dal fumaiolo un fumo bianco e altissimo, mentre trainava tre corti vagoni e in prossimità delle strade o delle stazioni lanciava un fischio che certe volte, quando il vento tirava dalla parte giusta, si sentiva fino ad Appendini. Una volta era stato con barba Anselmo alla stazione di Pinerolo ed era stata tutta un’altra cosa: Pinerolo era città, mica paese e la stazione era grossa e imponente, con tre binari che si attestavano sulla banchina. Qui i treni che arrivavano dovevano poi ripartire al contrario dopo che i ferrovieri avevano compiuto complesse e affascinanti manovre di sgancio della locomotiva di testa e di riaggancio nella direzione opposta di un’altra, che usciva da un magazzino laterale.
Nei giorni precedenti alla partenza era andato ai Paglieri a salutare gli altri nonni. Nonno Carlo gli aveva raccomandato di stare attento e di riguardarsi, poi gli aveva dato dei soldi, nonna Mafalda gli aveva regalato un maglione e delle calze di lana spessa, perché secondo lei «In America fa più freddo che qua.» Poi era passato da don Mario a prendere i nomi e gli indirizzi di quelli che già erano partiti e aveva fatto un giro dalle persone che conosceva. Tutti gli avevano augurato buona fortuna e gli avevano messo in mano qualche moneta «Per il viaggio e le necessità.»
Aveva solo diciotto anni, ma andava con Alfredo e questo bastava per tranquillizzare tutti, infatti Alfredo aveva trentotto anni ed era un uomo che ne sapeva della vita; e decisamente! Intanto conosceva l’Italia perché era stato militare molti anni prima quando Carlo era nato ed era andato in Veneto e poi anche giù a Roma nei tre anni che aveva passato sotto le armi e perciò poteva ben dire la sua su come va il mondo e cosa è bene fare o non fare. Inoltre sapeva leggere e scrivere e quella non era una cosa di poco conto per un uomo della sua età.
La strada per Piscina richiedeva circa un’ora di marcia e così si incamminarono alle sette per essere in tempo al treno che passava alle otto e mezza. Carlo si era procurato un piccolo baule di legno, dove sua madre aveva riposto un paio di braghe, due maglie di lana, due paia di mutande, tre paia di calze, il maglione e i calzettoni di nonna Mafalda, una coperta, un asciugamano e un pezzo di sapone: tutto quello che si sarebbe portato via.
Prima di avviarsi, il vecchio barba Anselmo, che non sarebbe venuto alla stazione, perché ormai troppo anziano lo aveva chiamato da parte e gli aveva consegnato un sacchetto con 120 lire «Tieni, queste sono per te, le ho messe via in tutti questi anni, pensando di lasciartele in eredità alla mia morte, ma ti saranno utili ora. In gamba mi raccomando.»
Camminavano in silenzio, perché nessuno aveva troppa voglia di parlare. Anna guardava quel figlio che stava per partire a fare l’emigrante, domandandosi se mai lo avrebbe ancora rivisto prima di morire. Bartolomeo faceva il duro, ma in cuor suo si chiedeva se fosse stata una buona idea quella di spingere Carlo a una decisione tanto importante.
Tutto era nato alla fine di agosto, tre mesi prima, ne aveva parlato una sera a cena: «Sapete, mi hanno proposto di andare in America a cercare fortuna, qui in fin dei conti si riesce a mala pena a mangiare, non so neanche quando potrei sposarmi. Dicono che laggiù ci sia tanto di quel lavoro e con delle buone paghe, che nel giro di quattro o cinque anni riesci a comprarti una bella cascina. Allora io ho pensato: sono giovane, se vado laggiù metto da parte dei bei soldi e poi torno e compro una cascina, anche piccola e voi tutti venite a vivere insieme a me.»
Il padre lo aveva guardato senza parlare, mentre sua madre aveva esclamato: «Oh Gesù, Maria nostra Signora Vergine, Madre!» tutti si erano volti verso di lei che era rimasta ferma col cucchiaio in mano e che senza dar peso agli sguardi aveva continuato «Ma chi è che ti ha messo in testa queste robe? Andare fino in America poi! E noi qui come facciamo nelle terre senza di te e con i tuoi fratelli e le tue sorelle che sono ancora ragazzi?»
«E’ Alfredo, tuo cugino, è lui che me lo ha proposto; dice che mi presta anche il soldi per il viaggio.»
«Ah, ma lo sistemo io appena lo vedo quel figlio del demonio. In Argentina. A fare l’emigrante, lo porta!»
Erano rimasti tutti zitti, anche barba Anselmo e nonna Rita, mentre i cucchiai tintinnavano nei piatti e nessuno aveva più il coraggio di dire qualcosa.
Era stato Bartolomeo a rompere il silenzio: «Carlo non ha poi tutti i torti» esclamò «qui, per bene che gli vada, potrà prendere il mio posto e poi? Un anno dopo l’altro ad arare, seminare, raccogliere e… dividere.»
«Ma noi abbiamo la terra, le bestie» aveva detto Anna quasi piagnucolando.
«Come no! E teniamole pure da conto, per carità. Ma da sole ci danno da mangiare? Lasciamo stare, dai. Lui invece adesso è giovane, non è ancora moroso, può andare dove vuole e fare fortuna, noi ci arrangeremo, i suoi fratelli sono ragazzi, ma già abbastanza grandi e ci daranno una mano, solo Agostina e Anna sono piccole, ma cresceranno anche loro. Se infine avrò bisogno, chiamerò qualcuno. E se invece torna con la fortuna allora faremo una grande festa tutti insieme. Vai, va, informati come fare per andare in America.»
Arrivarono alla stazione con buon anticipo ed acquistarono i biglietti. Poi giunse il treno da Pinerolo: sbuffava ed emetteva una bianca nuvola di vapore dagli stantuffi e dal fumaiolo, tanto intensa che tutti i passeggeri in attesa ne furono avvolti e per un attimo ogni persona scomparve alla vista di ciascuno degli altri. La locomotiva sembrava non voler fermare la sua corsa ed invece i vagoni si arrestarono giusti giusti sulla banchina, proprio in corrispondenza dei passeggeri. Sul treno c’era molta gente, tutti viaggiatori diretti a Torino, qualcuno si affacciava dal finestrino per guardare, ma i più rimanevano indifferenti negli scomparti.
Prima di salire si salutarono e si abbracciarono. Per prima Anna, poi Bartolomeo e infine i fratelli e le sorelle che stavano tutti là, ordinati in fila: Battista, Teresa, Michele, Anna Maria, Angela, Giacomo, Agostina, Giovanna e per ultime nonna Rita e Mariuccia. Carlo si mostrò forte e ricacciò in gola quelle lacrime che prepotenti salivano a gonfiargli gli occhi.
Bartolomeo strinse la mano ad Alfredo, raccomandandogli il figlio: «Stagli dietro più che puoi.»
«Non preoccuparti, da adesso in avanti è come se fosse figlio mio.»
Il capostazione ordinò il “tutti in carrozza” e il treno si mosse con uno scossone, poi prese volocità. Dal finestrino Carlo rimase fisso a guardare la sua famiglia, ferma sul marciapiede della stazione che diventava sempre più piccola sino a che scomparve del tutto.
Mentre il treno correva verso Torino, Carlo osservava la campagna circostante e cercava di imprimersi nella mente ogni dettaglio di quei luoghi che non avrebbe più rivisto per chissà quanto tempo. Campi coltivati, stradine polverose, boschi di pioppi, filari di gelsi e di viti, cascine isolate, rossi caselli ferroviari, piccole stazioni, scorrevano veloci davanti ai suoi occhi. All’improvviso percepì anche l’odore; quello a cui non aveva fatto caso sinora. Era un odore strano, forte, di legno acido e ferro, carbone e olio, che impastava il naso e la bocca e lo avrebbe accompagnato a lungo e che identificò, infine, come l’odore stesso del viaggio.
Dopo poco più di un’ora il piccolo convoglio entrò finalmente nella stazione di Porta Nuova. Carlo e Alfredo scesero dalla carrozza e domandarono ad un capostazione in divisa a che ora partiva il treno per Genova: «Fra mezz’ora esatta, signori, binario sette» rispose questi
« Oohi abbiamo tempo per fare un giro » dichiarò Alfredo eccitato.
Attraversando la stazione Carlo vide che era molto grande e un’infinità di persone andava e veniva dalle banchine dove innumerevoli convogli arrivavano e partivano fra stridore di freni e grandi sbuffi di fumo. Vi erano persone di tutti i generi: distinti signori ed eleganti signore con ampi cappelli, militari, contadini, operai, bambini, venditori ambulanti, suonatori di organetto, mendicanti, un’umanità varia popolava quel luogo che gli ricordava tanto una festa di paese. Uscirono dalla grande stazione e il ragazzo vide per la prima volta nella sua vita Torino. Era come se l’aspettava? Non sapeva neppure lui. Era comunque qualcosa di nuovo, entusiasmante, certamente sorprendente. Di fronte alla stazione c’era una piazza, non troppo grande, ma abbastanza ampia; tutti i palazzi che la circondavano avevano i portici, ma Carlo venne subito attratto dai numerosi tramvai che andavano e venivano in tutte le direzioni. Questi erano trainati dai cavalli, ma le vetture scorrevano su binari come quelli del treno, così che la loro direzione era del tutto obbligata. Nelle strade c’erano anche molte persone che precedevano traballanti veicoli a due ruote che, gli disse Alfredo: «Si chiamano biciclette» - un mezzo di locomozione che certo agli Appendini non aveva mai veduto - e ad un certo punto udirono il suono di una tromba e videro una specie di calesse rumoreggiante ancora più sorprendente, che avanzava senza che fosse tirato dai cavalli: «Quella, invece, è un’automobile» gli indicò il cugino.
«Robe da matti!» esclamò Carlo che a quel punto era totalmente affascinato dalla città.
Ma mezz’ora passa in fretta e non c’era tempo per vedere altro. Rientrarono nella stazione, il loro treno era già pronto sul binario; salirono e aspettarono la partenza. Nell’attesa Carlo pensava che tra poco sarebbe stato Natale e si domandava dove lo avrebbe passato quel Natale del 1907.
Il viaggio verso Genova durava circa quattro ore e dopo un po’ che avevano lasciato Porta Nuova, Carlo osservò che il paesaggio cambiava; la pianura lasciava il posto ad un saliscendi di morbide colline che il treno in parte seguiva e in parte no, lanciandosi su alti viadotti e infilandosi in qualche galleria. Qui la terra era più sabbiosa, grigia e molte erano le vigne che coprivano i rilievi che si susseguivano in una sequenza che pareva non avere mai fine.
Il treno fece una fermata. Carlo lesse il nome della stazione: Asti. Dopo circa mezz’ora il convoglio si arrestò nuovamente, Carlo si affacciò ancora dal finestrino e lesse: Alessandria. Qui il convoglio cambiò direzione, girò a destra e si lanciò dritto verso il sole. Ad un certo punto egli si accorse che iniziavano altre montagne, che avevano richiesto ai costruttori della ferrovia ponti e gallerie a non finire. Si infilarono in una vallata aspra e selvatica, dove ogni tanto apparivano dei minuscoli borghi formati da case colorate che si tenevano l’una all’altra e tutte insieme stavano aggrappate ad una rocca scoscesa che non si capiva come facessero a rimanere lì, immobili, invece di rotolare a valle.
Poi il treno sbucò da un’ennesima galleria e all’improvviso Carlo vide il mare: «E quello? » domandò ad Alfredo. «Il mare, è lì che andremo.»
Il ragazzo non riusciva più a staccarsi dal finestrino cercando di cogliere ogni immagine del mare che gli si presentava alla vista, mentre il treno compiva le sue giravolte per scendere dall’Appennino sino a Genova.
All'imbocco della città il convoglio rallentò vistosamente, procedendo poi a passo d'uomo per un lungo tratto. Carlo osservava incuriosito le banchine del porto e le officine circostanti dense di lavoratori, di ferro e carbone, dalle quali emanava un odore acre e forte che riempiva l'aria, i polmoni e le viscere.
Uscirono dalla stazione che erano le quattro del pomeriggio e Carlo osservò che la città appariva molto diversa da Torino. Anche qui c’era un brulicare di gente, ma ancora più fitto e con persone decisamente più variopinte; invece delle grandi piazze e delle ampie vie che aveva veduto quella mattina, Genova presentava un intrico di vicoletti aggrovigliati fra il mare e la collina, taluni talmente stretti che pareva impossibile persino di potercisi infilare, dove le case alte e serrate si appoggiavano le une alle altre precipitando giù, giù fino al porto. In alto, fra gli edifici, erano tesi dei fili su cui le donne avevano posto i loro panni ad asciugare e che ritraevano facendoli scorrere mediante carrucole. Gli sembrava di essere in un altro mondo rispetto a casa sua e si accorgeva che nello spazio di mezza giornata aveva veduto più cose che in tutta la sua vita sino ad allora. Non mancò di osservare che faceva decisamente meno freddo che su, in Piemonte.
«Scendiamo fino al porto per domandare informazioni, poi cerchiamo un posto per mangiare» disse Alfredo.
A Genova la gente era la più assortita possibile, se, infatti, vi erano distinti signori con cappello e marsina, che si capivano essere uomini d’affari o ricchi commercianti, si vedevano poi frotte di personaggi piuttosto bizzarri, vestiti con maglie o canottiere a righe, scuri, con la pelle bruciata dal sole, i capelli più lunghi del normale e sovente con un buffo berretto in testa, tipo una ciotola rovesciata, con il fondo piatto e al centro una specie di palla fatta con mille fili intrecciati, il tutto rigorosamente di colore blu scuro. In alcuni vicoli c’erano delle donne appoggiate agli usci delle case, avevano le labbra colorate di rosso ed esibivano senza troppo pudore i seni bianchi alla vista dei passanti. Carlo, con lo spirito dei suoi diciotto anni, ne rimase piuttosto colpito e continuava a voltarsi indietro per guardare: «Alfredo, quella mi ha fissato» diceva al cugino «Vieniii, lascia stare» gli rispondeva lui trascinandolo via. Talvolta, invece, qualche uomo si fermava a parlare con una di queste donne e dopo qualche parola entravano in casa rimanendo inghiottiti nell’oscurità dei piccoli androni. L’odore acido di fumo, urina, sudore, muffa, sporcizia, salsedine impregnava l’aria dei vicoli, rendendola pungente alle narici.
Al porto c’erano dei gabbiotti delle varie compagnie di navigazione che facevano rotta in tutto il mondo. Ormeggiate sui moli stavano decine di navi. Tutte di ferro, erano così grandi che al loro confronto anche i treni apparivano minuscoli. Dopo qualche ora riuscirono a sapere che c’era un vapore, il Mendoza, che sarebbe partito per l’Argentina di lì a quattro giorni. Contenti della notizia cercarono quindi una bettola in uno dei vicoli, dove ordinarono due piatti di minestra di fagioli e un mezzo fiasco di vino, accomodandosi al tavolo in una sala fumosa e sovraffollata; in un angolo due donne seminude ridevano e scherzavano con degli uomini dall’aspetto affatto raccomandabile; poterono anche affittare dallo stesso oste una stanzetta in una soffitta per aspettare il giorno della partenza. Nell’osteria, come dappertutto, c’erano dei personaggi alquanto untuosi che offrivano imbarchi per gli Stati Uniti o per l’America del sud e un lavoro sicuro appena sbarcati, ma Alfredo sapeva che non c’era da fidarsi di costoro e poi, ad ogni modo, la cosa non li interessava visto che avevano già un importante contatto in Argentina, perciò declinò qualsiasi offerta e pretesto di attaccare discorso.
«No, no, vede» diceva mostrando la lettera del cugino Antonio «noi abbiamo già il nostro contatto a Buenos Aires. Ormai ci stanno aspettando e non possiamo mancare.»
In quei pochi giorni Alfredo non fece altro che dormire, mentre Carlo, invece, vagò a lungo per il porto e gli piacque soffermarsi a guardare le grandi navi che arrivavano e partivano caricando e scaricando sui moli enormi quantità di merce, tramite strane gru che gli ricordavano giganteschi volatili appollaiati sul nido. In un'altra zona c’erano invece le imbarcazioni dei pescatori; queste partivano tutte le notti per gettare in mare le reti, ritornando poi sul finire della mattinata. Arrivati nel porto scaricavano il pesce che avevano già suddiviso per qualità e dimensione e subito altre persone lo portavano con dei carretti di legno nelle ghiacciaie sottoterra, dove poteva essere conservato per alcuni giorni. Carlo non aveva mai sentito l’odore del mare e del pesce e subito ne era rimasto nauseato «Un tanfo schifoso» considerava, «peggio di quello dei vicoli, che almeno all’odore di piscio sono abituato, ma a questa roba proprio no», ma poi nello spazio di un giorno o due si era assuefatto e gli dava meno fastidio, anche se il pesce non avrebbe avuto forse il coraggio di mangiarlo.
Appena fuori dal porto c’era un grande giardino. Già mentre scendevano dalla balze dell’Appennino, aveva osservato che la vegetazione era diversa e ben più rigogliosa rispetto a quella di casa, ma qui poté vedere meglio la straordinaria varietà di piante che popolavano il luogo. Lungo le rive, oltre il giardino e più in basso, si allineavano le piccole case dei pescatori, strette e colorate a tinte vivaci, con minuscole finestrelle scure dalle quali a volte appariva un vaso di gerani o la figura minuta di una donna che con l’occhio preoccupato scrutava la superficie increspata del mare. Fuori dalle case stavano le reti e gli arnesi della pesca; un vecchio, scavato e rugoso, intento ad un complicato rammendo, vide Carlo e gli disse: «Quest’anno non c’è buona pesca, il mare è stanco.»
«Già» rispose lui «speriamo che venga una stagione migliore» il pescatore non rispose e silenzioso riprese il suo lavoro.
Su tutto questo dominava la grande Lanterna che di notte, girando tutto intorno la sua lama di luce giallastra, indicava ai naviganti l’ingresso e l’uscita dal porto di Genova.
Venne finalmente il giorno della partenza. Carlo e Alfredo avevano già il biglietto di viaggio, perciò al molo della Mendoza furono avviati alla fila per l’imbarco della terza classe, dove una massa enorme di persone attendeva il proprio turno di montare sulla passerella per entrare nel ventre della grande nave. Salirono e un marinaio gli indicò dov’erano le camerate della terza classe; scesero giù due rampe ripide di scale e si ritrovarono in un vasto locale dove fra le numerose brande e un frastuono enorme di gente che si chiamava da una parte all’altra, si erano già sistemate molte famiglie. Individuarono un posto libero in fondo e aspettarono di sentire il bastimento muoversi, mentre il caldo divenne opprimente sin dai primi minuti. Dopo alcune ore di attesa finalmente uno scossone e una sirena avvisarono che la Mendoza lasciava il porto.
L’America li stava aspettando.

A mio nonno.