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Questo è il mio blog personale, un blog di confine, dove proverò a pubblicare un pò di cose mie, per me e per chi le vorrà leggere.

Il Confine

...un confine, proprio perché si pone di fronte a una differenza, deve essere valicato, non deve essere ignorato ponendovi a limite la diffidenza, così come è valicato sistematicamente il confine che c’è fra il giorno e la notte, tra il prima e il dopo, tra la terra e il mare, fra l’uomo e la donna, tra la vita e la morte.

domenica 4 settembre 2011

Agosto 1987

L’anno era il 1987, di questo sono sicuro. Il giorno non so, intorno al 20 di agosto, più o meno; d’altra parte tornavamo sempre dal mare dopo ferragosto, perciò i giorni erano quelli, ma poi adesso, a distanza di anni, giorno più o giorno meno che differenza può fare? Nessuna. Il fatto, triste, era che comunque per me l’estate era finita. Quando tornavi dal mare avevi solo rotture di scatole davanti agli occhi; prima i lavori nell’orto, immancabili, noiosi, che mio padre e mia madre mi costringevano a fare, perché “Si deve dare una mano”: togliere le patate, zappare, fare la passata di pomodori, spremere, invasare, sterilizzare; tutti gli anni la stessa storia, con ottocento metri quadri di orto, mica una cascina. Poi ricominciava la scuola, l’università, la sessione di esami di settembre, l’inizio dell’anno accademico. Mio fratello non c’era, quella volta, non ricordo perché, forse era rientrato il giorno prima con un suo amico e noi, io, mio padre e mia madre, viaggiavamo sulla padana inferiore, come al solito: Isola Verde, Mantova, Cremona, solo lì prendevamo l’autostrada – quando la prendevamo – per uscire a Felizzano, in modo da risparmiare qualcosa sul biglietto, poi ancora statale, Asti, Carmagnola, tutti i paesi, fino a casa. Comunque quella volta l’avevamo presa - l’autostrada - e meno male perché la macchina già non andava avanti per conto suo, con la bella idea che aveva avuto mio padre prima di ripartire dal mare. Io pensavo a Valentina, l’avevo conosciuta lì nel campeggio. Una storia intensa, ma breve, da estate, cinque giorni in tutto, ma mi era sembrata chissà cosa e adesso pensavo se avrei ancora potuto rivederla: io a Torino, lei a Padova, quattrocento chilometri di distanza, dici niente. Non poteva abitare anche lei a Torino? O io a Padova, che tra l’altro mio padre a Padova c’era pure nato. Che sfiga.

Sulla radio avevo messo Ron “E’ l’Italia che vaaa, con le sue macchinine brum, brum”, ecco appunto, ma era già il periodo che cominciava a non piacermi più, Ron, dico, che pure negli anni prima era stato un mio idolo. Lo ascoltavo per rispetto, ancora, ma tra un po’ lo avrei mollato, specialmente se avesse continuato a fare canzoni del genere. E ha continuato, infatti.

La macchina arrancava sulla strada, con il carrello appendice dietro. “Cos’è il carrello appendice?” mi chiedi. “Già, si vede che sei proprio giovane, se non sai neanche cos’è un carrello appendice.” Ma chi era che non aveva il carrello appendice nel 1987? Nessuno, viaggiavamo tutti in fila sulla strada coi nostri carrelli appendice attaccati dietro alle macchine, caricati con le tende e tutto quello che serviva per un buon campeggio. Altro che i camper da cinquantamila euro di adesso.

La macchina arrancava, perché era una macchina del cavolo, poverina, non era neanche colpa sua, ma di chi l’aveva costruita: una Ford Taunus del 1978, cilindrata 1300 cc, con impianto a gas, puoi capire quanto poteva andare, praticamente un barcone americano, comoda eh, per carità, ma pesantissima e con un motore da utilitaria. Faceva al massimo i 120, con solo il conducente, figurati con tre sopra e il carrello appendice, caricato al massimo. E’ stata, la Taunus, la macchina che mi ha fatto prendere in antipatia le Ford, che ancora adesso, dopo venticinque anni e passa, non le posso vedere, perché sono quelle cose che ti rimangono nell’inconscio per tutta la vita e ti condizionano, come quelli che avevano comprato all’epoca il 127 o il 128 e gli veniva la ruggine e da allora non hanno mai più comprato una Fiat, o come lo yogurt, che mi ha fatto rimettere una volta che avevo cinque o sei anni e non l’ho più assaggiato e a dirla tutta non so nemmeno che sapore abbia, ma non ce la faccio lo stesso. Comunque la macchina arrancava soprattutto perché quell’anno il carrello appendice pesava un botto, un’esagerazione che se ci fermava la polizia e ci pesava ci sequestrava tutto, pure le patenti, a me e mio padre e anche a mia madre che pure non l’aveva e tutto questo perché lui, mio padre, prima di ripartire, si era fatto gola di una lastra di marmo, ideale per farci un tavolo. L’aveva vista là, buttata sotto una stuoia o da qualche parte e non aveva resistito. La lastra era bella, effettivamente, tipo travertino, lunga e larga un metro e cinquanta per ottanta, con i bordi smussati e levigati, veniva fuori un bellissimo tavolino. Peccato pesasse una roba esagerata, da doverla sollevare in due con massima fatica, ma non c’era stato niente da fare, s’era fatto gola come ti ho detto e aveva deciso di portarsela a casa, a cinquecento chilometri di distanza, caricata sul carrello appendice. La macchina arrancava e il carrello appendice seguiva arrancando. Non so se hai presente un carrello appendice – ma hai detto di no - con le sponde di alluminio e le ruote della vespa, un rimorchietto, insomma. Guidavo io, che avevo già la patente e da quando l’ho avuta ho sempre guidato io e mio padre a fare il passeggero. Era sera, non so verso le undici, più o meno. Ad un certo punto ho sentito tipo un botto e la macchina che tirava dietro di qua e di là, sbandando; ho mollato l’acceleratore, tenuto lo sterzo e mi sono accostato a destra. Siamo scesi: “Merda, abbiamo bucato una ruota del carrello”, abbiamo detto elegantemente, mai capitato prima in tanti anni, “Che sfiga nera”. La ruota bucata era bollente, anche l’altra “Non è che magari il peso, sai la tua lastra”, dico a mio padre. “Ma figurati il carrello è omologato per tre quintali”, “Eh, appunto” mugugno “Ce la fa benissimo” dice lui “Ah ho visto” rispondo. Comunque niente, dovevamo cambiare la ruota, non c’era altro da fare. Ora non so se hai presente dove si tiene la ruota del carrello appendice? No? Nel carrello appendice, ovviamente, dove vuoi tenerla, sotto tutta la roba, chiaramente, perché di solito non buchi mai la ruota del carrello appendice, mai capitato prima d’allora. Allora ci siamo messi a tirare giù la roba, poi abbiamo preso il crick, tutto sulla corsia di emergenza dell’autostrada, si capisce, mentre le altre macchine sfrecciavano e ci facevano ballare e noi niente giubbini rinfrangenti, al massimo il triangolo, sai nel 1987. Tra un sacramento e l’altro abbiamo cambiato la ruota e siamo ripartiti. Guidavo io. Avremmo fatto si e no cento chilometri, forse neanche, anzi direi proprio neanche ed ho sentito un altro botto, la macchina che sbandava, tirava tutta a destra. “Cavolo, cosa succede.” Ho frenato, mi sono accostato e siamo scesi. “Ma non è possibile, porca la miseria, ancora la gomma, sempre quella” e giù a sacramentare di nuovo, io, mio padre e anche mia madre che adesso se la prendeva pure a male con lui e con la sua lastra di pietra, perché ormai era chiaro a tutti che il problema era quello. Ed era sempre la stessa gomma, cioè quella che avevamo già cambiato, la ruota di scorta. Erano quasi le due, di notte. Ora non è che ti metti a cambiare la seconda gomma del carrello appendice alle due di notte sull’autostrada, soprattutto per un particolare: non avevamo, principalmente, una seconda gomma di scorta. E chi ce l’aveva? Nessuno, ovvio. Si sarebbe potuto andare a chiamare il soccorso stradale, alla colonnina poco più avanti, perché nel 1987 mica c’erano i cellulari. Ma scherzi? Neanche a parlarne: “Costa!” Così, non avendo alternative siamo rimasti a dormire in macchina, sulla corsia di emergenza, attendendo il mattino e soprattutto aspettando che ci venisse qualche buona idea. Per fortuna era ancora estate, il 20 di agosto o giù di lì, ti ho detto e albeggiava presto, ma di soluzioni non è che ce ne fossero molte: o chiamare il soccorso stradale e pagare o… cercare un paese e fare aggiustare la gomma. Il fatto era che non sapevamo minimamente dove stavamo, di sicuro in aperta campagna, in una zona sperduta, dato che non si vedeva né un borgo, né una casa a pagarla oro, neanche fossimo stati in Arizona o nel Nebraska, invece che nella pianura padana. Però c’era un ponte, poco più indietro, che scavalcava l’autostrada e se c’è un ponte e perché c’è una strada, e se c’è una strada… “Da qualche parte arriverà.” No? Così abbiamo scavalcato la recinzione dell’autostrada, che pure non si poteva fare, neppure nel 1987, io e mio padre, con la ruota in mano e mia madre ad aspettarci in macchina. Abbiamo seguito la rete e ci siamo portati sul ponte. Da lì si poteva dare un occhio in giro e allora siamo riusciti ad individuare due o tre cascine e un campanile, saranno stati due o tre chilometri: “Di là c’è un paese, sicuramente.” “Andiamo.”

Allora, fatti tu, due o tre chilometri con una ruota della vespa in mano: dice, ma non pesa tanto. No, non pesa tanto, ma dopo cento metri sei già lì che cambi mano; dopo duecento metri è un macigno, a trecento metri sei già morto. “Porto un po’ io.” “Dai adesso dammela” e così avanti, come fosse stato un blocco di marmo delle piramidi o la maledetta lastra di pietra che avevamo nel carrello appendice. Comunque in una mezz’ora di fatica finalmente siamo arrivati a ‘sto paese. Insomma dire paese è dirla un po’ grossa: c’erano dieci o dodici case, una cappella con il campanile e un meccanico. Benedetto, almeno lui. Però era chiuso per ferie. Comunque abbiamo provato a suonare, magari che al venti di agosto fosse già tornato. Dopo un bel pò è uscita una signora: “Mio marito è di là, ma è in ferie” dice. Per fortuna, spiegata la nostra situazione ha capito ed è andata a chiamarlo, lui ha aperto l’officina, ma era un meccanico e non un gommista e una camera della vespa proprio non ce l’aveva. “Ma più avanti c’è …” (ora il nome di quel paese proprio non me lo ricordo) “lì c’è uno che aggiusta le gomme, una camera l’avrà.” “Ma è distante?” fa mio padre. “Eh sono più o meno cinque chilometri.” Allora lui ci ha visto lo sgomento negli occhi: “Cinque chilometri? A piedi? Con la ruota della vespa in mano?” E gli è venuto da dire: “Se volete vi presto una bicicletta, così uno va in là e l’altro lo aspetta qui.” Benedetto, il meccanico. Buona idea, cavolo, veramente una bella idea. Ha preferito andare mio padre, io sono rimasto lì ad aspettarlo, in quella borgatina di quattro case in croce, sperduta non so neanche dove.

Forse, poi, a pensarci, non stavano neanche male in quel paesello sperduto nella pianura padana. Era un po’ come da noi, che doveva essere? Poche case, col suo giardino, l’orto, i cani, chi aveva le galline, chi, invece, due macchine. Però quella zona non mi piace, non mi è mai piaciuta, perché non si vedono le montagne. Cioè si vedono, perché a nord hai le Alpi con il Monte Rosa e appena a sud gli Appennini della Liguria e se poi fa bello, si scorgono comunque a ovest, verso Torino, verso di noi, le altre Alpi, le nostre, il Viso pure. Ma non è uguale, non sono lì a scandirti lo spazio preciso, a ripararti, proteggerti. Non mi piace, insomma. E poi non sapevo neppure di preciso dove stavamo. Il posto era sperduto, certamente e non avevi punti di riferimento. Mio fratello non c’era, che fortuna aveva avuto a risparmiarsi questa bella avventura. Poi l’estate era finita e questo mi rattristava, Valentina stava a Padova e io rientravo verso Torino. Mi veniva in mente una canzone che era uscita un po’ di anni prima e che ancora adesso mi mette addosso una tristezza infinita perché mi simboleggia la fine dell’estate: “Non c'è più la vela bianca con l'inverno c'è il gabbiano e l'estate del mio amore è un ricordo ormai lontano. Il vento cancella dalla sabbia i ricordi ma dal cuore no, il vento non puòdi Casadei, forse, che neppure mi piace, ma cavolo che angoscia. Quell’anno poi, ancora peggio.

Sono rimasto lì almeno un’ora, il tempo che ci ha messo mio padre fra andare, trovare il gommista, far riparare la ruota e tornare. Poi abbiamo ringraziato il meccanico e siamo ripartiti. Non è che adesso la gomma fosse più leggera, pesava come prima, naturalmente e cento metri con quella roba in mano sembravano sempre dieci chilometri. Comunque siamo arrivati, abbiamo passato il ponte e scavalcato la recinzione. Mia madre era seduta sul ciglio della strada e ci aveva dati ormai per persi, svaniti nel nulla, perché tra una roba e l’altra eravamo stati via quasi tre ore. Abbiamo rimontato la gomma maledetta, facendo gli scongiuri che non si bucasse un’altra volta, poi siamo ripartiti. Non ho mai superato i settanta, per non scaldare le ruote del carrello appendice. Dopo neanche dieci chilometri abbiamo visto il cartello Alessandria. Almeno abbiamo capito dove eravamo, non era né l’Arizona né il Nebraska, solo pianura padana. Siamo usciti a Felizzano, come al solito; un altro paese che non ho mai visto in vita mia, se non per il casello dell’autostrada. Guidavo io, ma avrei tanto voluto dormire.

Quest'anno mi sono deciso e sono andato a pulire il giardino dietro casa di mia madre. Quando c’era mio padre quel posto era un gioiello, sempre perfetto, lucido, ci andavamo a mangiare, c’era il formo per la pizza e tutto l’occorrente. Poi dopo che lui è mancato nessuno l’ha più utilizzato ed è diventato una discarica. Chiunque avesse qualcosa che non sapeva dove mettere la portava lì. L’altro giorno, eravamo proprio intorno al venti di agosto, mi sono messo all’opera. Togli questo, butta quello, alla fine è ritornato un posto civile. Ad un certo punto da sotto la tettoia chi ti sbuca? “Eh chi ti sbuca?” dirai. La lastra di pietra, tipo travertino, che poi mio padre aveva fatto diventare un tavolo vero e proprio, con la sua bella struttura in ferro per le gambe. Un tavolo pesantissimo, come allora, perché non è che una lastra di pietra si alleggerisce in venticinque anni. Allora l’ho ripulito ben bene e l’ho tirato fuori a fare la sua bella figura in giardino. E c’è pure il carrello appendice, con le ruote della vespa, anche se nessuna macchina potrà più trainarlo, perché chi è che oggi va in giro con un carrello appendice attaccato dietro? Nessuno, no?

Il vento cancellaaa dalla sabbia i ricoordi ma dal cuore nooo, il vento non puòòò.