Benvenuti

Questo è il mio blog personale, un blog di confine, dove proverò a pubblicare un pò di cose mie, per me e per chi le vorrà leggere.

Il Confine

...un confine, proprio perché si pone di fronte a una differenza, deve essere valicato, non deve essere ignorato ponendovi a limite la diffidenza, così come è valicato sistematicamente il confine che c’è fra il giorno e la notte, tra il prima e il dopo, tra la terra e il mare, fra l’uomo e la donna, tra la vita e la morte.

sabato 10 settembre 2016

UN PASSO DOPO L'ALTRO - Storie Camminanti.



A distanza di tre anni da Pianura, arriva un nuovo libro, si intitola "Un passo dopo l'altro". Non è un romanzo tradizionale, sono piuttosto storie camminanti e cosa è questo libro lo svelano subito le sue prime pagine...

Inizio

E’ possibile scrivere un libro camminando? Magari no, nel senso di scriverlo materialmente, con la penna e il blocco di fogli in mano, ma pensarlo certamente sì per poi riportarlo sulla carta poco per volta. Ed è proprio ciò che ho provato a fare io con queste pagine. Scrivere un libro del pensiero camminante, o del cammino pensante, come preferite, che è venuto fuori girovagando fra le polverose stradine di campagna delle mie parti, calpestate quotidianamente per mesi e anni, nell’arco delle quattro stagioni. Ma non sarà questo un romanzo vero e proprio, il racconto preciso di una storia con un suo inizio e una sua fine, i suoi personaggi e i suoi accadimenti.
Sarà qualcosa di diverso, perché camminando in solitudine, con passo tranquillo, arrivano alla testa tanti pensieri, che in queste pagine sono diventati idee, considerazioni, fantasie, memorie, storie personali e collettive.
Racconti e pagine libere, di volta in volta leggeri come l’aria o duri come il marmo, senza una linea cronologica precisa. Perché queste storie seguono un cammino libero, hanno il suo stesso andamento. E quando si cammina, a volte si va più veloci, altre più lenti, ci si ferma, si torna anche indietro per un pezzo, si alza lo sguardo spaziando verso l’orizzonte o ci si sofferma sul dettaglio di un filo d’erba.
Dipende.
E dipende anche se sei in estate piuttosto che in inverno, se è l’alba, o se ti trovi nella calura di un pomeriggio estivo, se c’è il sole o attendi un temporale, se hai caldo, se hai freddo, se sei stanco, arrabbiato, felice, annoiato, eccitato, se hai fame, o magari sei troppo sazio.
Dipende, perché ogni giorno è diverso dall’altro, ogni passo è unico e ogni strada ha una sua ragione di essere “camminata” e questi sono, appunto, pensieri camminanti.

venerdì 28 novembre 2014

Le castagne



Quando arrivavi nella metà di ottobre e ti svegliavi in una domenica fredda e uggiosa che capivi che l’estate era ormai un ricordo lontano, veniva improvvisamente voglia di andare a raccogliere un po’ di castagne. Dunque definitivamente intabarrati con maglione e scarponcini, partivamo alla volta di Cumiana (sempre lì), fra San Valeriano e la Costa, dove a mezza altezza si trovano buoni boschi di castagne, appena sopra la quota dei faggeti.
Armati di cesto e bastone passavamo alcune ore ad aprire ricci e selezionare le castagne più belle, in mezzo alle foglie che ormai avevano steso un tappeto uniforme sulla terra.
Se eri fortunato e nei giorni precedenti aveva piovuto un po’, poteva capitare pure di trovare qualche fungo, non dico porcini, ma almeno qualche “crava” rossa o nera senz’altro e a qual punto la giornata diventava davvero proficua e il ritorno a casa molto più soddisfacente.
Come è ovvio, sarebbe stato poi opportuno mettere le castagne per qualche tempo in una cassetta bassa e larga ad asciugare e seccare un po’, prima di consumarle, ma chi poteva resistere quella sera stessa a fare le caldarroste per la prima volta nella stagione?
Ed ecco allora mio padre tirare fuori l’apposita padella bucherellata, ricavata dal cestello di una lavatrice a cui era stato applicato il manico e accendere il fuoco nel bidone di latta per preparare i frutti tanto desiderati.
La mamma già che c’era approfittava dei funghi trovati e preparava un bel sugo per la salsiccia e la polenta.
Con i nonni e qualche amico si passava una bella serata in allegria e anche se il giorno dopo c’era la scuola e ricominciava il solito tran-tran della settimana, in quelle poche ore non ci pensavi e ti sembrava bello persino l’autunno.


Erano cose talmente semplici che si possono fare persino oggi, basterebbe solo avere voglia di partire, prendersi un cestino dietro e cercare una vecchia padella da bucherellare. Chissà mai che domenica…

L'uva



Visto che siamo in tema del “come eravamo d’autunno”, ecco il secondo episodio della trilogia (o quadrilogia, non so, dipenderà dalla penna), questa volta dedicato all’uva, o meglio alla vendemmia.
Occorre ricordare che in quei tempi, dico gli anni ’60 e ’70, una famiglia normale consumava circa un litro e mezzo di vino al giorno e magari anche due, che moltiplicati per tutto l’anno facevano ben più di cinquecento litri, ossia l’equivalente di una decina di damigiane. Ora non è che uno si andava a comprare cinquecento litri di vino in enoteca, a meno che fosse Agnelli e dunque tutti facevano per necessità e passione, una produzione casalinga di vino, da conservare in cantina nelle suddette damigiane, per poi tirarlo nei pintoni da due litri, mano a mano che queste venivano svuotate.
In base a questa necessità assoluta, sino almeno a tutti gli anni ’70 c’erano vigne e viti anche in pianura, a Viotto, Murisenghi, Appendini, eccetera o nella prima collina, tipo Cumiana, Frossasco, Bricherasio. Il problema era che queste uve erano di bassa gradazione e fare il vino utilizzando esclusivamente quelle, non rendeva un prodotto decente nel senso letterale del termine.
Quando le possibilità economiche crebbero un pochino, nacque quindi la tecnica della doppia vendemmia, la prima fatta in zona e la seconda in Langa o nel Roero, dove già in estate mio padre e i suoi fratelli si erano premuniti di trattare alcune partite di uve nobili, da andarsi a raccogliere direttamente sul posto.
Era così che un bel giorno di ottobre, saltata la scuola, si partiva tutti stipati sul Lupetto o sul Cerbiatto, preso a nolo e tra fumate e grattate del motore si raggiungeva Montà, piuttosto che Priocca.
Dedicata la giornata ai filari di barbera o dolcetto, non con poca fatica, si mangiava tutti insieme sotto la pergola, fra cibo e canzoni e si rientrava la sera tardi, con poco riposo, perché il giorno dopo i grandi facevano la spremitura. Con la macchina per l’uva, a manovella, piazzata sopra il tino, la “bunsa”, un cesto per volta si mescolava l’uva locale a quella nobile, in proporzioni di alchimia misteriosa che, si sperava, avrebbero fornito un risultato apprezzabile.
La cosiddetta rapa, che la macchina separava dagli acini, almeno a casa nostra veniva buttata, in quanto fortunatamente ci si asteneva dalla produzione della grappa.
Nelle settimane seguenti poi il vino veniva mano a mano filtrato e travasato nei bottiglioni. Una damigiana buona, comprata direttamente sul posto, veniva trasformata in “bute stupe” da utilizzare nelle feste o quando veniva qualcuno a trovarci.


Non sono convinto che questa fine enologia portasse ad un prodotto di grande qualità, tant’è che personalmente sono arrivato fino quasi ai trent’anni prima di apprezzare il vino, ossia prima di comprendere che quel nettare delizioso che si trova in bottiglia, prodotto da coloro che di ciò sanno occuparsi, era qualcosa di completamente diverso da ciò che sin da piccolo avevo visto produrre artigianalmente in casa e mi dicevano fosse vino. Ma tant’è, e al di là di questo, ciò che conta è ricordare che quelle sono state giornate di grande allegria, da conservare come sempre, nel cassetto dei ricordi.