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Questo è il mio blog personale, un blog di confine, dove proverò a pubblicare un pò di cose mie, per me e per chi le vorrà leggere.

Il Confine

...un confine, proprio perché si pone di fronte a una differenza, deve essere valicato, non deve essere ignorato ponendovi a limite la diffidenza, così come è valicato sistematicamente il confine che c’è fra il giorno e la notte, tra il prima e il dopo, tra la terra e il mare, fra l’uomo e la donna, tra la vita e la morte.

venerdì 23 ottobre 2009

Scalenghe, 13 ottobre 1693

Ricordo il rumore dei cavalli e il rombo cupo che saliva sino a divenire assordante mentre riempiva le orecchie e la testa. Ricordo l’odore della polvere umida che penetrava negli occhi e nella gola e non ti faceva respirare. Ricordo le grida di quelli che dicevano alle donne di scappare e nascondersi da qualche parte. Ricordo il pianto di un bambino rimasto solo in mezzo alla strada, mentre soldati e cavalieri gli sfrecciavano intorno, miracolosamente senza toccarlo. Ricordo le porte del recinto sfondate come fossero di carta, attraverso le quali entrava un numero infinito di soldati, dopo che stupidamente ci eravamo illusi che quelle povere palizzate potessero proteggerci dall’orda barbara e incontrollata. Ricordo che sono entrati travolgendo tutto e tutti, perché non avevamo difese contro di loro, chè non eravamo certo noi pochi uomini, armati solo di forconi e di qualche vecchia sciabola arrugginita a poter tenere fuori dal paese un esercito straniero bramoso di saccheggio.
Fu così che irruppero in mezzo alla piazza: prima i cavalieri, poi la truppa a piedi. Vicino a loro stava il comandante, fiero e tranquillo sul suo cavallo: il generale Catinat, dissero. Ad un suo cenno, alcuni ufficiali che gli stavano intorno lanciarono degli ordini e lì si scatenò la barbarie. Gruppi di soldati entrarono in tutte le case, che per fortuna nella gran parte erano vuote. Chi era potuto fuggire lo aveva fatto verso le campagne, dalla parte di Cercenasco o di Buriasco, molti, quasi tutti i vecchi, le donne e i bambini si erano rifugiati nella chiesa di S. Caterina, sollecitati dal prete che credeva fermamente che le solide mura e il rispetto di Dio avrebbero fermato gli invasori e in questo almeno ebbe ragione.
Quelli che non avevano lasciato le case e si erano nascosti nelle cantine o nelle soffitte, illudendosi in questo modo di essere al sicuro e di proteggere i loro beni, non ebbero scampo. Furono tutti trovati e uccisi sul posto o peggio ancora trascinati per strada e massacrati dopo essere stati fatti oggetto di dileggio e torture di ogni genere; cosa che avvenne anche a quelli che si erano fatti sorprendere per strada a fuggire chissà dove. In un vicolo una donna era preda delle brame di quattro soldati: un gruppo di uomini tra cui Giò Battista e Ugo Antonino, intervennero a sua difesa, ma i soldati reagirono con violenza e mentre uno continuava a tenere ferma la donna, gli altri massacrarono i poveri compaesani che li avevano disturbati. Antonino fu abbattuto con un colpo d’ascia, Giò Battista ucciso con la spada e buttato in un angolo, gli altri fuggirono, poi i barbari compirono il loro delitto e alla fine neppure la donna venne risparmiata. In quei momenti la vita di un uomo non aveva, per quei soldati, più valore di quella di una gallina o di un coniglio. Né alcuna casa rimase indenne dalla ferocia dei francesi: che fosse di quelle più povere dove non c’era quasi nulla da prendere, o che fosse di quelle più ricche dove i soldati facevano man bassa di tutto ciò che trovavano. Portavano via quello che ritenevano di valore distruggendo e gettando fuori tutto il resto, mobili, vestiti, suppellettili, poi alla fine, inderogabilmente, davano fuoco all’edificio. Sorprendeva la loro incredibile capacità di svuotare un edificio e gettare tutto in strada nello spazio di pochi minuti.
A sera tutto il paese era ridotto in fiamme.
E mentre tutto ciò accadeva, nel cortile del castello dei Signori Piossasco, il generale Catinat, seduto su una seggiola da campo in tela, sorseggiava un calice di vino rosso, conversando amabilmente con i suoi ufficiali, mentre attendeva la fine della razzia.
Alla fine di tutto non ebbe miglior sorte neppure lo stesso castello: i pochi servitori che lo difendevano furono passati per le armi nel giro di qualche istante, poi, dopo il saccheggio selvaggio, alcuni soldati trascinarono di fronte all’edificio un cannone da campagna, facendolo oggetto di numerosi colpi che aprirono larghe brecce nei muri. Quindi furono minate le fondamenta e alla fine anch’esso fu dato alle fiamme. A notte inoltrata il calore del fuoco fece brillare le mine e il castello venne giù in rovina.
Vidi quest’ultima scena dall’alto, perché impotente e incapace di fare qualcosa, anche io mi ero rifugiato nella chiesa, poi insieme ad altri uomini ero salito nel sottotetto dell’edificio da dove avevamo tolto alcune tegole uscendo fuori ad osservare lo straziante spettacolo del nostro paese distrutto. Con stupore di tutti, ma come il prete aveva previsto, la chiesa non fu toccata, anche se il suo muro esterno divenne il luogo prescelto dalla soldataglia per orinare e defecare.

Eppure tutto questo non era giunto inatteso. Il primo segno che qualcosa di grave sarebbe accaduto lo si ebbe alla fine di settembre. Eravamo intenti a lavorare in un fosso al Campolungo quando vedemmo passare sulla strada di Castagnole un convoglio formato da due carrozze e quattro carri carichi di suppellettili di ogni genere, scortato da alcuni cavalieri. Erano gli abitanti del castello, Signori della famiglia Piossasco, che lasciavano Scalenghe alla volta di Torino. Fu una cosa inconsueta perché mai a memoria nostra i Signori Piossasco avevano abbandonato il paese lasciando a guardia del palazzo solo pochi servitori.
Qualche giorno dopo, invece, giunse notizia che i francesi avevano disceso la valle di Susa e stavano attaccando il Duca Vittorio Amedeo alle spalle, mentre egli cercava di prendere Pinerolo. In effetti prestando attenzione ci accorgemmo che erano cessati i colpi di cannone che anche di notte, da qualche settimana, si sentivano provenire costantemente dalla direzione di Pinerolo e non si udiva più nulla. Ma fu il giorno quattro che si seppe della battaglia. Salimmo sul campanile per osservare verso nord, nella direzione di Volvera. Nonostante la distanza si sentiva distintamente il rombo del combattimento. Nuvole di fumo che si alzavano in cielo si videro per tutta la giornata, mentre messaggeri raggiungevano i paesi per portare qualche notizia. Ora sembrava che prevalesse il Duca, ora sembrava avessero la meglio i francesi. Poi tutto cessò e non si seppe più nulla per qualche giorno.
Le prime avanguardie di coloro che scappavano, arrivando da Airasca, chiarirono definitivamente i dubbi su chi aveva prevalso nel terribile scontro. I francesi! Avevano vinto i francesi! Tutti avevamo chiaro nella testa ciò che sarebbe accaduto. Trascorsero due giorni di relativa calma, in cui mentre si rafforzavano le palizzate, qualcuno osava sperare che l’esercito di Catinat sarebbe ritornato indietro verso la val Susa o si sarebbe diretto a Torino. Ma il mattino successivo fu a tutti ben chiaro il nostro destino. E mentre i primi cavalieri si affacciavano alle porte del nostro paese, già gli abitanti della Pieve erano fuggiti per le campagne, lasciando le loro case quale ambita preda alla retroguardia dell’esercito invasore.

Ricordo che uscimmo dalla chiesa alle prime ore dell’alba, dopo che i francesi se ne erano andati. Ricordo che ci aggiravamo per il paese, cercando fra le case qualcuno che fosse ancora vivo. Ricordo che da una di queste sentii provenire un lamento flebile e, salito al primo piano, vidi che sul letto vi era il cadavere di una giovane donna, Rosa; al suo fianco un soldato francese giaceva, anch’egli morto, con un pugnale conficcato nel cuore. In un angolo piagnucolava un bambino di circa un anno, il figlio della ragazza. Lo presi in braccio e uscii in strada. Intanto sentivo un rombo lontano e mi voltai per capire da dove provenisse.
Guardai verso sud.
Nel cielo di Cercenasco già si vedeva salire il fumo dei primi incendi.