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Questo è il mio blog personale, un blog di confine, dove proverò a pubblicare un pò di cose mie, per me e per chi le vorrà leggere.

Il Confine

...un confine, proprio perché si pone di fronte a una differenza, deve essere valicato, non deve essere ignorato ponendovi a limite la diffidenza, così come è valicato sistematicamente il confine che c’è fra il giorno e la notte, tra il prima e il dopo, tra la terra e il mare, fra l’uomo e la donna, tra la vita e la morte.

venerdì 28 novembre 2014

Le castagne



Quando arrivavi nella metà di ottobre e ti svegliavi in una domenica fredda e uggiosa che capivi che l’estate era ormai un ricordo lontano, veniva improvvisamente voglia di andare a raccogliere un po’ di castagne. Dunque definitivamente intabarrati con maglione e scarponcini, partivamo alla volta di Cumiana (sempre lì), fra San Valeriano e la Costa, dove a mezza altezza si trovano buoni boschi di castagne, appena sopra la quota dei faggeti.
Armati di cesto e bastone passavamo alcune ore ad aprire ricci e selezionare le castagne più belle, in mezzo alle foglie che ormai avevano steso un tappeto uniforme sulla terra.
Se eri fortunato e nei giorni precedenti aveva piovuto un po’, poteva capitare pure di trovare qualche fungo, non dico porcini, ma almeno qualche “crava” rossa o nera senz’altro e a qual punto la giornata diventava davvero proficua e il ritorno a casa molto più soddisfacente.
Come è ovvio, sarebbe stato poi opportuno mettere le castagne per qualche tempo in una cassetta bassa e larga ad asciugare e seccare un po’, prima di consumarle, ma chi poteva resistere quella sera stessa a fare le caldarroste per la prima volta nella stagione?
Ed ecco allora mio padre tirare fuori l’apposita padella bucherellata, ricavata dal cestello di una lavatrice a cui era stato applicato il manico e accendere il fuoco nel bidone di latta per preparare i frutti tanto desiderati.
La mamma già che c’era approfittava dei funghi trovati e preparava un bel sugo per la salsiccia e la polenta.
Con i nonni e qualche amico si passava una bella serata in allegria e anche se il giorno dopo c’era la scuola e ricominciava il solito tran-tran della settimana, in quelle poche ore non ci pensavi e ti sembrava bello persino l’autunno.


Erano cose talmente semplici che si possono fare persino oggi, basterebbe solo avere voglia di partire, prendersi un cestino dietro e cercare una vecchia padella da bucherellare. Chissà mai che domenica…

L'uva



Visto che siamo in tema del “come eravamo d’autunno”, ecco il secondo episodio della trilogia (o quadrilogia, non so, dipenderà dalla penna), questa volta dedicato all’uva, o meglio alla vendemmia.
Occorre ricordare che in quei tempi, dico gli anni ’60 e ’70, una famiglia normale consumava circa un litro e mezzo di vino al giorno e magari anche due, che moltiplicati per tutto l’anno facevano ben più di cinquecento litri, ossia l’equivalente di una decina di damigiane. Ora non è che uno si andava a comprare cinquecento litri di vino in enoteca, a meno che fosse Agnelli e dunque tutti facevano per necessità e passione, una produzione casalinga di vino, da conservare in cantina nelle suddette damigiane, per poi tirarlo nei pintoni da due litri, mano a mano che queste venivano svuotate.
In base a questa necessità assoluta, sino almeno a tutti gli anni ’70 c’erano vigne e viti anche in pianura, a Viotto, Murisenghi, Appendini, eccetera o nella prima collina, tipo Cumiana, Frossasco, Bricherasio. Il problema era che queste uve erano di bassa gradazione e fare il vino utilizzando esclusivamente quelle, non rendeva un prodotto decente nel senso letterale del termine.
Quando le possibilità economiche crebbero un pochino, nacque quindi la tecnica della doppia vendemmia, la prima fatta in zona e la seconda in Langa o nel Roero, dove già in estate mio padre e i suoi fratelli si erano premuniti di trattare alcune partite di uve nobili, da andarsi a raccogliere direttamente sul posto.
Era così che un bel giorno di ottobre, saltata la scuola, si partiva tutti stipati sul Lupetto o sul Cerbiatto, preso a nolo e tra fumate e grattate del motore si raggiungeva Montà, piuttosto che Priocca.
Dedicata la giornata ai filari di barbera o dolcetto, non con poca fatica, si mangiava tutti insieme sotto la pergola, fra cibo e canzoni e si rientrava la sera tardi, con poco riposo, perché il giorno dopo i grandi facevano la spremitura. Con la macchina per l’uva, a manovella, piazzata sopra il tino, la “bunsa”, un cesto per volta si mescolava l’uva locale a quella nobile, in proporzioni di alchimia misteriosa che, si sperava, avrebbero fornito un risultato apprezzabile.
La cosiddetta rapa, che la macchina separava dagli acini, almeno a casa nostra veniva buttata, in quanto fortunatamente ci si asteneva dalla produzione della grappa.
Nelle settimane seguenti poi il vino veniva mano a mano filtrato e travasato nei bottiglioni. Una damigiana buona, comprata direttamente sul posto, veniva trasformata in “bute stupe” da utilizzare nelle feste o quando veniva qualcuno a trovarci.


Non sono convinto che questa fine enologia portasse ad un prodotto di grande qualità, tant’è che personalmente sono arrivato fino quasi ai trent’anni prima di apprezzare il vino, ossia prima di comprendere che quel nettare delizioso che si trova in bottiglia, prodotto da coloro che di ciò sanno occuparsi, era qualcosa di completamente diverso da ciò che sin da piccolo avevo visto produrre artigianalmente in casa e mi dicevano fosse vino. Ma tant’è, e al di là di questo, ciò che conta è ricordare che quelle sono state giornate di grande allegria, da conservare come sempre, nel cassetto dei ricordi.

La melia



Oggi facendo la solita passeggiata col cane, stavo pensando che essendo io nato nel secolo scorso ed avendo vissuto ornai quasi dieci lustri, ho avuto modo nel tempo passato di sperimentare alcune attività che aiutavano moltissimo a riempire le giornate autunnali.
Infatti in questa stagione in molti campi il mais è già stato raccolto e dunque accadeva a quei tempi che si partiva in bici, io e mio padre, col carrettino attaccato dietro per andare a “mesunè”. Ora non chiedetemi di tradurre questa espressione piemontese perché non saprei farlo, ma si trattava in pratica di scandagliare a tappeto i campi di mais appena tagliati per recuperare tutti quei pezzi e scarti di pannocchie che la mietitrice non aveva raccolto. Con metodo e pazienza, sacco attaccato al fianco, si facevano delle notevoli scorte di grano turco. A cosa serviva, mi domandi? Beh è ovvio, per alimentare i polli e le galline durante l’inverno, no. D’altra parte si sa che allora tutte le famiglie, anche quelle che non possedevano una cascina, tenevano comunque dei polli e dei conigli. Mi pare fosse persino obbligatorio per legge. Poi quel mais andava però staccato dalla pannocchia, dunque era necessario “sgrunè la melia” ossia sgranare il mais per poterlo macinare. Attività che spesso si andava a fare anche da qualche conoscente o parente dotato di azienda agricola. Allora ci si metteva vecchi e bambini sotto il “cas” e pannocchia intera in una mano e “panot” dall’altra ce n’era da passare dei bei pomeriggi.
Ovviamente al giorno d’oggi non ci passerebbe neppure per la mente di fare delle robe del genere. Se vogliamo una pannocchia, intera o sgranata, possiamo andarcela comodamente a comprare al supermercato, dove ho visto vendono anche il fieno per i conigli d’appartamento, perfettamente confezionato in sacchetti di nylon, ad un prezzo suppergiù equivalente a quello del prosciutto crudo.
Ma a parte la melia c’erano altre cose che impegnavano l’autunno, come ad esempio la raccolta delle “famiole” che servivano alla mamma per preparare il sugo per la salsiccia e la polenta o la ben più nobile raccolta dei funghi, su a Cumiana, principalmente.
E si faceva pure la raccolta delle lumache, poverine, che, seppur prelibate, concludevano però la loro esistenza in maniera molto triste.
Insomma un sacco di cose e a ben pensarci non so nemmeno dove trovavamo il tempo di fare tutto questo, tant’è che le giornate, anche senza tecnologia volavano via veloci.
Ma è inutile stare lì  fare i nostalgici, senza tecnologia queste sciocche righe le avrei dovute scrivere con la biro su un quadernetto, per poi chiuderle in un cassetto, senza poterle far leggere a nessuno.