Gli
occhi sperduti dentro quelle quattro ossa, che per qualche misterioso motivo
riuscivano ancora a rimanere in piedi, non sapevano neppure da che parte
guardare, quando i primi soldati russi si affacciarono increduli alle
recinzioni. Daniele fissava quegli uomini in maniera meccanica e senza pensare
a nulla. Ormai da mesi non pensava più a nulla, diversamente non avrebbe potuto
sopravvivere a quell’inferno. Come lui stavano le altre migliaia di cadaveri
viventi, tanto allucinati che dopo che i tedeschi erano scappati - due giorni
prima - nessuno era uscito dal lager e tutti erano rimasti fermi ed inermi ad
aspettare che qualcosa accadesse.
Erano
due anni che Daniele stava nel campo; il treno che li aveva portati si era
fermato nella nebbia notturna e finalmente le porte del carro bestiame si erano
aperte, lasciando entrare l’aria fresca. In realtà non sapeva quanti giorni
avessero viaggiato, dato che aveva perso la cognizione del tempo e non sapeva
neppure perché li avessero presi, lui che aveva tredici anni, suo fratello
Davide di otto anni appena, i genitori, i nonni, tutti buttati giù dal letto, strappati
da casa in piena notte e radunati in piazza con tutte le altre famiglie del
quartiere.
Li
avevano caricati sui camion urlando parole incomprensibili dove solo ogni tanto
si capiva “Jude” e poi li avevano spinti
direttamente sui carri bestiame di un lungo treno che attendeva spettrale, con
tanta altra gente impaurita come e forse più di loro.
La
mamma piangeva, ma, almeno erano rimasti insieme: “Se stiamo insieme non ci
capiterà niente” – pensava – “Se sono con la mia famiglia non corro nessun
pericolo” – ripeteva nella testa come un mantra.
Poi
il treno era partito. Un’ora dopo l’altra era passato molto tempo; avevano
cominciato ad avere fame e sete: “Magari adesso ci fermiamo e ci danno da
mangiare” – pensava ancora - “Magari ci danno una coperta” perché aveva anche
freddo.
Qualcuno
lì nel vagone diceva che sarebbero andati a lavorare: “Ci portano in Germania
per lavorare, io lo so. Ci tratteranno bene, perché dobbiamo lavorare nelle
loro fabbriche”. Ma Daniele non era tanto sicuro di saper lavorare, perché
aveva solo tredici anni: “E mio fratello?” – pensava - “Davide ha otto anni è
solo un bambino, come farà a lavorare?” I suoi genitori pareva non sapessero
nulla di quello che gli sarebbe accaduto, ma gli dicevano di stare tranquillo, di
non preoccuparsi. Però la mamma piangeva sempre, cercando di non farsi vedere,
ma lui se n’era accorto.
Alla
fine il treno si era fermato e le porte si erano aperte. Nella nebbia c’erano
molti uomini che urlavano, cani che abbaiavano. C’era stata tanta confusione e
in un attimo non aveva più veduto la mamma e neppure suo fratello. Poi si era
accorto di non scorgere più suo padre: “E i nonni?” Dove sono finiti i nonni?
Si
era trovato nel campo da solo, senza incontrare più nessuno dei suoi. Ogni
tanto domandava notizie, ma pareva che nessuno sapesse niente dei suoi
genitori, di suo fratello. Poi, poco per volta, si era abituato a tutto: alla
fame, alle botte, al freddo, alla fatica, alle umiliazioni, alla puzza degli
escrementi.
Non
pensava più a nulla, non sapeva neppure più chi era, perché ormai Daniele era
sparito; c’era solo un numero, quel lungo numero che gli avevano inciso sul
braccio e che velocemente aveva dovuto imparare a memoria in quella lingua
cruda e ostile.
Poi
tutto è finito e lui è tornato, liberato dall’inferno, uno scheletro d’ossa,
nel corpo e nella testa. Suo fratello di otto anni, la mamma, suo padre, i
nonni non c’erano; svaniti nel nulla in quell’istante stesso che erano scesi
dal treno. Probabilmente li aveva respirati nel fumo incessante che usciva dal
camino con tanti altri e solo lui era rimasto, senza motivo a quel punto, senza
ragione alcuna.
D’improvviso
si sveglia: è l’infermiera della casa di riposo che lo sta chiamando. “Signor
Daniele, Signor Daniele, si alzi, dobbiamo fare il bagno”.
Il
bagno già! Ancora una volta dovrà togliere la camicia e per qualche minuto
guardare il suo braccio e vedere quel numero.
Sì
perché Daniele ora vive in una casa di riposo; ha ormai più di ottant’anni e
tutti sanno che lui non toglie mai la camicia, se non quando deve lavarsi. Non
per gli altri, perché non si vergogna, ma per sé stesso, vuole nascondere, non
vuole vedere il suo braccio sinistro: 38466296653.
Questo è
il suo nome, perché Daniele è morto nel lager, con la sua adolescenza e la sua
vita negata. Poi nei suoi giorni trascinati, nelle sue notti insonni, è stato per
sempre 38466296653, incancellabile come l’urlo dei soldati “Jude!”, incancellabile come una domanda
senza risposta: “Perché?”