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Questo è il mio blog personale, un blog di confine, dove proverò a pubblicare un pò di cose mie, per me e per chi le vorrà leggere.

Il Confine

...un confine, proprio perché si pone di fronte a una differenza, deve essere valicato, non deve essere ignorato ponendovi a limite la diffidenza, così come è valicato sistematicamente il confine che c’è fra il giorno e la notte, tra il prima e il dopo, tra la terra e il mare, fra l’uomo e la donna, tra la vita e la morte.

giovedì 21 marzo 2013

Shoah - 38466296653



Gli occhi sperduti dentro quelle quattro ossa, che per qualche misterioso motivo riuscivano ancora a rimanere in piedi, non sapevano neppure da che parte guardare, quando i primi soldati russi si affacciarono increduli alle recinzioni. Daniele fissava quegli uomini in maniera meccanica e senza pensare a nulla. Ormai da mesi non pensava più a nulla, diversamente non avrebbe potuto sopravvivere a quell’inferno. Come lui stavano le altre migliaia di cadaveri viventi, tanto allucinati che dopo che i tedeschi erano scappati - due giorni prima - nessuno era uscito dal lager e tutti erano rimasti fermi ed inermi ad aspettare che qualcosa accadesse.
Erano due anni che Daniele stava nel campo; il treno che li aveva portati si era fermato nella nebbia notturna e finalmente le porte del carro bestiame si erano aperte, lasciando entrare l’aria fresca. In realtà non sapeva quanti giorni avessero viaggiato, dato che aveva perso la cognizione del tempo e non sapeva neppure perché li avessero presi, lui che aveva tredici anni, suo fratello Davide di otto anni appena, i genitori, i nonni, tutti buttati giù dal letto, strappati da casa in piena notte e radunati in piazza con tutte le altre famiglie del quartiere.
Li avevano caricati sui camion urlando parole incomprensibili dove solo ogni tanto si capiva “Jude” e poi li avevano spinti direttamente sui carri bestiame di un lungo treno che attendeva spettrale, con tanta altra gente impaurita come e forse più di loro.
La mamma piangeva, ma, almeno erano rimasti insieme: “Se stiamo insieme non ci capiterà niente” – pensava – “Se sono con la mia famiglia non corro nessun pericolo” – ripeteva nella testa come un mantra.
Poi il treno era partito. Un’ora dopo l’altra era passato molto tempo; avevano cominciato ad avere fame e sete: “Magari adesso ci fermiamo e ci danno da mangiare” – pensava ancora - “Magari ci danno una coperta” perché aveva anche freddo.
Qualcuno lì nel vagone diceva che sarebbero andati a lavorare: “Ci portano in Germania per lavorare, io lo so. Ci tratteranno bene, perché dobbiamo lavorare nelle loro fabbriche”. Ma Daniele non era tanto sicuro di saper lavorare, perché aveva solo tredici anni: “E mio fratello?” – pensava - “Davide ha otto anni è solo un bambino, come farà a lavorare?” I suoi genitori pareva non sapessero nulla di quello che gli sarebbe accaduto, ma gli dicevano di stare tranquillo, di non preoccuparsi. Però la mamma piangeva sempre, cercando di non farsi vedere, ma lui se n’era accorto.
Alla fine il treno si era fermato e le porte si erano aperte. Nella nebbia c’erano molti uomini che urlavano, cani che abbaiavano. C’era stata tanta confusione e in un attimo non aveva più veduto la mamma e neppure suo fratello. Poi si era accorto di non scorgere più suo padre: “E i nonni?” Dove sono finiti i nonni?
Si era trovato nel campo da solo, senza incontrare più nessuno dei suoi. Ogni tanto domandava notizie, ma pareva che nessuno sapesse niente dei suoi genitori, di suo fratello. Poi, poco per volta, si era abituato a tutto: alla fame, alle botte, al freddo, alla fatica, alle umiliazioni, alla puzza degli escrementi.
Non pensava più a nulla, non sapeva neppure più chi era, perché ormai Daniele era sparito; c’era solo un numero, quel lungo numero che gli avevano inciso sul braccio e che velocemente aveva dovuto imparare a memoria in quella lingua cruda e ostile.
Poi tutto è finito e lui è tornato, liberato dall’inferno, uno scheletro d’ossa, nel corpo e nella testa. Suo fratello di otto anni, la mamma, suo padre, i nonni non c’erano; svaniti nel nulla in quell’istante stesso che erano scesi dal treno. Probabilmente li aveva respirati nel fumo incessante che usciva dal camino con tanti altri e solo lui era rimasto, senza motivo a quel punto, senza ragione alcuna.

D’improvviso si sveglia: è l’infermiera della casa di riposo che lo sta chiamando. “Signor Daniele, Signor Daniele, si alzi, dobbiamo fare il bagno”.
Il bagno già! Ancora una volta dovrà togliere la camicia e per qualche minuto guardare il suo braccio e vedere quel numero.
Sì perché Daniele ora vive in una casa di riposo; ha ormai più di ottant’anni e tutti sanno che lui non toglie mai la camicia, se non quando deve lavarsi. Non per gli altri, perché non si vergogna, ma per sé stesso, vuole nascondere, non vuole vedere il suo braccio sinistro: 38466296653.
Questo è il suo nome, perché Daniele è morto nel lager, con la sua adolescenza e la sua vita negata. Poi nei suoi giorni trascinati, nelle sue notti insonni, è stato per sempre 38466296653, incancellabile come l’urlo dei soldati “Jude!”, incancellabile come una domanda senza risposta: “Perché?”

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