Benvenuti

Questo è il mio blog personale, un blog di confine, dove proverò a pubblicare un pò di cose mie, per me e per chi le vorrà leggere.

Il Confine

...un confine, proprio perché si pone di fronte a una differenza, deve essere valicato, non deve essere ignorato ponendovi a limite la diffidenza, così come è valicato sistematicamente il confine che c’è fra il giorno e la notte, tra il prima e il dopo, tra la terra e il mare, fra l’uomo e la donna, tra la vita e la morte.

mercoledì 18 settembre 2013

Città sconosciuta



Quest’ora di meriggio assolato mi fa quasi dimenticare che in questi giorni ormai l’estate sta volgendo con decisione verso l’autunno e mi invita ad inoltrarmi nelle antiche strade della citta.
Svoltato l’ultimo angolo dopo la salita, si apre una stretta viuzza chiusa fra due alti muri in pietra. Quello a destra regge la collina che sale sino a raggiungere la grande chiesa gotica di mattoni rossi; l’altro delimita un piccolo giardino che solo si intuisce dall’esterno ed è rivestito da una spessa pianta di edera, talmente attaccata alle pietre che sembra essere lei stessa che le tiene insieme impedendole di rovinare a terra. In fondo al vicolo, il sole dritto a picco abbaglia, regalandomi le ultime ore di tepore che intendo godermi come fanno le lucertole che vanno e vengono fra i muri e il selciato.
Dopo alcuni passi un cancello di ferro sgangherato disvela l’intero del giardino e all’improvviso sembra di guardare in un altro luogo e in un’altra stagione. Perché inaspettatamente, fra aloe e fichi d’india, limoni e rosmarino, trionfano un olivo e un oleandro e mi domando se per caso sono finito in un antico borgo ligure, tanto da aspettarmi di alzare lo sguardo e vedere il mare oltre i tetti frastagliati delle case; ma no, sono ancora qui e vai a capire quale incredibile microclima si mantenga fra questi quattro muri in pietra per far fiorire una varietà di piante del genere. Però vorrei avere anche io un giardino così, da curare e sistemare e dove ritirarmi ogni tanto a coltivare i miei pensieri.
Scendo poi fra le case più in basso, qui le vie sono più larghe e le case più alte, mi incuriosisce guardare dentro gli androni e ad un certo punto entro in un cortile interno. E’ quadrato, non molto grande; sui due lati si aprono dei porticati con le scale, sopra ci sono i ballatoi con la biancheria stesa, in fondo un passaggio conduce ad un secondo cortile e poi ad un terzo. All’improvviso mi accorgo che all’interno degli isolati definiti dalle strade principali, si apre un dedalo di passaggi, collegamenti, incastri di caseggiati che a loro volta si sovrappongono gli uni agli altri, tanto da formare un mondo interno complesso e totalmente nascosto al passante occasionale.
Mentre sono lì, arriva una vecchietta con una grossa borsa della spesa, ha l’andatura di chi ormai si avvicina al fondo del cammino; mi guarda incuriosita senza dire nulla, poi imbocca una delle scale e sale al piano di sopra. Affacciandosi dal loggiato mi scruta ancora una volta, poi scompare in un corridoio scuro. Mi viene da pensare se sia soddisfatta della vita che ha vissuto, ora che volge al termine. Adesso che anche io ho quanto meno raggiunto, se non superato, la metà di quella che sarà la mia vita, mi viene spesso da pensare se il cammino che ho percorso sino ad oggi sia positivo o negativo. E’ difficile dirlo, ma da un po’ ho capito che in ogni caso è importante godersi e apprezzare qualsiasi piccola cosa che ci si trova davanti, fossero anche solo queste due ore di sole o la bellezza del giardino di prima, perché è la semplicità di ogni giorno che fa la somma di tutti i giorni della nostra vita. Mentre le cose straordinarie non sono altro che eccezioni, in fondo.
Intanto mi arriva l’eco del pianto di un bambino, allora esco fuori, ma per strada non c’è anima viva. A destra appare un piccolo slargo della strada che va a formare quasi una piazzetta, dove una scalinata conduce ad una chiesa abbandonata. Proprio sulla soglia un gatto sdraiato dorme della grossa e non si accorge della mia presenza. Rasente il muro opposto invece avanza un cane solitario. Cammina tranquillo, ma guardingo, poi si avvicina, allora allungo la mano per accarezzarlo e lui distende il muso verso di me. Penso che in questo momento sono molto simile a lui. Libero e indipendente, visitatore solitario di questa città sconosciuta.

Concorso letterario nazionale Associazione Artistico Letteraria Engel von Bergeiche

Il racconto Liberazione ottiene il primo posto nella sezione racconti al Concorso letterario nazionale indetto dall'Associazione Artistico Letteraria Engel von Bergeiche.

mercoledì 15 maggio 2013

Pianura - Dove tutto ebbe inizio

Oggi esce finalmente il romanzo Pianura. E' costato due anni di fatiche e un pò di ripensamenti, ma credo ne sia valsa la pena. Con l'occasione ringrazio la casa editrice Araba Fenice per il sostegno e il lavoro svolto.
Buona lettura!
Candido

giovedì 21 marzo 2013

Shoah - 38466296653



Gli occhi sperduti dentro quelle quattro ossa, che per qualche misterioso motivo riuscivano ancora a rimanere in piedi, non sapevano neppure da che parte guardare, quando i primi soldati russi si affacciarono increduli alle recinzioni. Daniele fissava quegli uomini in maniera meccanica e senza pensare a nulla. Ormai da mesi non pensava più a nulla, diversamente non avrebbe potuto sopravvivere a quell’inferno. Come lui stavano le altre migliaia di cadaveri viventi, tanto allucinati che dopo che i tedeschi erano scappati - due giorni prima - nessuno era uscito dal lager e tutti erano rimasti fermi ed inermi ad aspettare che qualcosa accadesse.
Erano due anni che Daniele stava nel campo; il treno che li aveva portati si era fermato nella nebbia notturna e finalmente le porte del carro bestiame si erano aperte, lasciando entrare l’aria fresca. In realtà non sapeva quanti giorni avessero viaggiato, dato che aveva perso la cognizione del tempo e non sapeva neppure perché li avessero presi, lui che aveva tredici anni, suo fratello Davide di otto anni appena, i genitori, i nonni, tutti buttati giù dal letto, strappati da casa in piena notte e radunati in piazza con tutte le altre famiglie del quartiere.
Li avevano caricati sui camion urlando parole incomprensibili dove solo ogni tanto si capiva “Jude” e poi li avevano spinti direttamente sui carri bestiame di un lungo treno che attendeva spettrale, con tanta altra gente impaurita come e forse più di loro.
La mamma piangeva, ma, almeno erano rimasti insieme: “Se stiamo insieme non ci capiterà niente” – pensava – “Se sono con la mia famiglia non corro nessun pericolo” – ripeteva nella testa come un mantra.
Poi il treno era partito. Un’ora dopo l’altra era passato molto tempo; avevano cominciato ad avere fame e sete: “Magari adesso ci fermiamo e ci danno da mangiare” – pensava ancora - “Magari ci danno una coperta” perché aveva anche freddo.
Qualcuno lì nel vagone diceva che sarebbero andati a lavorare: “Ci portano in Germania per lavorare, io lo so. Ci tratteranno bene, perché dobbiamo lavorare nelle loro fabbriche”. Ma Daniele non era tanto sicuro di saper lavorare, perché aveva solo tredici anni: “E mio fratello?” – pensava - “Davide ha otto anni è solo un bambino, come farà a lavorare?” I suoi genitori pareva non sapessero nulla di quello che gli sarebbe accaduto, ma gli dicevano di stare tranquillo, di non preoccuparsi. Però la mamma piangeva sempre, cercando di non farsi vedere, ma lui se n’era accorto.
Alla fine il treno si era fermato e le porte si erano aperte. Nella nebbia c’erano molti uomini che urlavano, cani che abbaiavano. C’era stata tanta confusione e in un attimo non aveva più veduto la mamma e neppure suo fratello. Poi si era accorto di non scorgere più suo padre: “E i nonni?” Dove sono finiti i nonni?
Si era trovato nel campo da solo, senza incontrare più nessuno dei suoi. Ogni tanto domandava notizie, ma pareva che nessuno sapesse niente dei suoi genitori, di suo fratello. Poi, poco per volta, si era abituato a tutto: alla fame, alle botte, al freddo, alla fatica, alle umiliazioni, alla puzza degli escrementi.
Non pensava più a nulla, non sapeva neppure più chi era, perché ormai Daniele era sparito; c’era solo un numero, quel lungo numero che gli avevano inciso sul braccio e che velocemente aveva dovuto imparare a memoria in quella lingua cruda e ostile.
Poi tutto è finito e lui è tornato, liberato dall’inferno, uno scheletro d’ossa, nel corpo e nella testa. Suo fratello di otto anni, la mamma, suo padre, i nonni non c’erano; svaniti nel nulla in quell’istante stesso che erano scesi dal treno. Probabilmente li aveva respirati nel fumo incessante che usciva dal camino con tanti altri e solo lui era rimasto, senza motivo a quel punto, senza ragione alcuna.

D’improvviso si sveglia: è l’infermiera della casa di riposo che lo sta chiamando. “Signor Daniele, Signor Daniele, si alzi, dobbiamo fare il bagno”.
Il bagno già! Ancora una volta dovrà togliere la camicia e per qualche minuto guardare il suo braccio e vedere quel numero.
Sì perché Daniele ora vive in una casa di riposo; ha ormai più di ottant’anni e tutti sanno che lui non toglie mai la camicia, se non quando deve lavarsi. Non per gli altri, perché non si vergogna, ma per sé stesso, vuole nascondere, non vuole vedere il suo braccio sinistro: 38466296653.
Questo è il suo nome, perché Daniele è morto nel lager, con la sua adolescenza e la sua vita negata. Poi nei suoi giorni trascinati, nelle sue notti insonni, è stato per sempre 38466296653, incancellabile come l’urlo dei soldati “Jude!”, incancellabile come una domanda senza risposta: “Perché?”

Pianura



Di questa campagna conosco ogni albero e ogni pietra, i colori delle case e gli odori degli animali. La percorro avanti e indietro da quando sono nato e posso dire che è casa mia, perché di qua non sono mai andato via.
Quando posso me ne vado in giro e mi fermo ad osservare il paesaggio e se il cielo è sereno lo sguardo spazia per cento chilometri e oltre. Trovo bellissimo fissare le cose nella luce del mattino limpida e radente per confrontarle con quella della sera quando tutto assume una dimensione diversa e mi piace fra i campi e gli alberi individuare di tanto in tanto i campanili che emergono a indicare la presenza dei borghi, dove può trovare ognuno la casa propria, perché nel loro esistere - tutti simili, ma ciascuno unico e diverso – scandiscono sia lo spazio fisico che quello del tempo. Su tutto e su tutti domina la cerchia delle Alpi, vasta e imponente, che è insieme orizzonte fisico e mentale, la quale, come un guscio protettivo, rende così personale e intima questa terra.
In questo luogo c’è una stagione che mi piace più di ogni altra. «E’ l'estate» dirai. Già, l’estate! L’estate qui è bella, calda, con i pomeriggi assolati da non poter stare fuori prima delle cinque e le sere dolci, lunghe all'infinito. La notte dura poco, a volere si potrebbe anche dormire all’aperto, sotto un albero o in mezzo a un prato, fino al mattino quando il sole chiama presto e il paese si muove indaffarato e brulicante. Ma per me, fra tutte, la stagione preferita è la primavera, specialmente da fine marzo in poi. Sarà perché forse marzo è il mese che sono nato, non so; comunque in quel periodo le mattine sono ancora fresche, ma non gelate come in autunno, quando spesso c’è anche una nebbia lattiginosa e spessa, che persiste tutto il giorno o in inverno, quando fa veramente freddo.
In primavera le piante e i campi rinascono, le giornate si allungano a vista d’occhio e si percepisce in tutte le persone quella sottile euforia che precede qualche avvenimento importante che può essere l’attesa di una festa o di un matrimonio, come l’arrivo della bella stagione.
Sorprende sempre il risveglio della natura. Gli alberi e i campi che hanno dormito nel lungo inverno come morti, all'improvviso riprendono vita, specialmente questi ultimi, arati di fresco e concimati, nelle ore del mattino ancora fredde, fumano, letteralmente, come se dalle viscere della terra, il calore pulsante del sangue sgorgasse per farle riprendere il suo eterno ciclo vitale.
Capita poi un certo giorno, che uno si svegli di soprassalto in piena notte sentendo fuori come un boato che scuote tutta la casa.
E’ un vento fortissimo che si era alzato sommesso, ma che nel giro di poche ore ha preso una forza incredibile, affascinante e spaventevole: sono questi i giorni del phon caldo e turbinoso che dalle montagne sferza la pianura, scuotendo i tetti delle case, infiltrandosi tra le imposte, rovistando nei fienili, sollevando turbinii di foglie e polvere, spazzando i cortili e le strade. Quando finalmente si placa dopo aver sfogato tutta la sua energia ci si accorge che si è tirato dietro la primavera e ora la lascia lì, bellissima e luminosa, da tanto attesa e desiderata. Allora nel giro di pochi giorni, le piante esplodono in uno scintillio di fiori e di colori, per poi lasciare posto rapidamente alle folte chiome, verdi di foglie novelle. Nei prati l'erba, finalmente rinata, si punteggia anch'essa di infiniti fiori. Le api e gli altri insetti volano incessantemente a svolgere il prezioso lavoro a loro richiesto dalla natura, secondo un disegno misterioso che nessuno sa capire da dove venga fuori. “Solo Dio poteva creare tutto questo” diceva mio nonno Carlo a noi nipoti “dotare gli animali,  le piante e tutti gli esseri viventi di quella incredibile capacità di saper fare ciò che è necessario per la vita, nel momento giusto e nel modo giusto. Ogni anno, per tutti i secoli. Anche il nostro corpo, nasce, cresce e si modifica senza che noi ne sappiamo niente, fa tutto da solo. Gli uomini ogni tanto pretendono di metterci mano, ma è solo per sistemare qualche piccolo guasto che viene fuori. Per tutto il resto dobbiamo affidarci al Signore.”
Lo diceva mio nonno e in tanti decenni, in fondo, qui poco è cambiato; come in ogni luogo molti uomini sono passati e generazioni hanno vissuto, sofferto, amato e combattuto, magari non per scelta, ma perché quella era la loro vita. Nelle loro menti il mondo qui cominciava e qui finiva, quasi tutti non sarebbero mai usciti da questo intorno, non avrebbero forse neppure visto la stessa Torino, né  tanto meno si sarebbero posti la domanda di sapere chi abitava oltre le montagne o al di là delle colline e se il mondo fuori aveva qualcosa di meglio o di peggio da dare loro, rispetto alla vita che si attendevano.
Oggi tutto è diverso, se volessi potrei vivere in qualsiasi posto e fare qualunque cosa mi passi per la mente.
Potrei, ma non voglio.
Se vado via per un po’, dopo devo ritornare.
Qui dove sono nato, nella mia pianura.