Visto
che siamo in tema del “come eravamo d’autunno”, ecco il secondo episodio della
trilogia (o quadrilogia, non so, dipenderà dalla penna), questa volta dedicato
all’uva, o meglio alla vendemmia.
Occorre
ricordare che in quei tempi, dico gli anni ’60 e ’70, una famiglia normale
consumava circa un litro e mezzo di vino al giorno e magari anche due, che
moltiplicati per tutto l’anno facevano ben più di cinquecento litri, ossia
l’equivalente di una decina di damigiane. Ora non è che uno si andava a
comprare cinquecento litri di vino in enoteca, a meno che fosse Agnelli e
dunque tutti facevano per necessità e passione, una produzione casalinga di
vino, da conservare in cantina nelle suddette damigiane, per poi tirarlo nei
pintoni da due litri, mano a mano che queste venivano svuotate.
In
base a questa necessità assoluta, sino almeno a tutti gli anni ’70 c’erano
vigne e viti anche in pianura, a Viotto, Murisenghi, Appendini, eccetera o
nella prima collina, tipo Cumiana, Frossasco, Bricherasio. Il problema era che
queste uve erano di bassa gradazione e fare il vino utilizzando esclusivamente
quelle, non rendeva un prodotto decente nel senso letterale del termine.
Quando
le possibilità economiche crebbero un pochino, nacque quindi la tecnica della
doppia vendemmia, la prima fatta in zona e la seconda in Langa o nel Roero, dove
già in estate mio padre e i suoi fratelli si erano premuniti di trattare alcune
partite di uve nobili, da andarsi a raccogliere direttamente sul posto.
Era
così che un bel giorno di ottobre, saltata la scuola, si partiva tutti stipati
sul Lupetto o sul Cerbiatto, preso a nolo e tra fumate e grattate del motore si
raggiungeva Montà, piuttosto che Priocca.
Dedicata
la giornata ai filari di barbera o dolcetto, non con poca fatica, si mangiava
tutti insieme sotto la pergola, fra cibo e canzoni e si rientrava la sera tardi,
con poco riposo, perché il giorno dopo i grandi facevano la spremitura. Con la
macchina per l’uva, a manovella, piazzata sopra il tino, la “bunsa”, un cesto per volta si mescolava
l’uva locale a quella nobile, in proporzioni di alchimia misteriosa che, si
sperava, avrebbero fornito un risultato apprezzabile.
La
cosiddetta rapa, che la macchina separava dagli acini, almeno a casa nostra
veniva buttata, in quanto fortunatamente ci si asteneva dalla produzione della
grappa.
Nelle
settimane seguenti poi il vino veniva mano a mano filtrato e travasato nei
bottiglioni. Una damigiana buona, comprata direttamente sul posto, veniva trasformata
in “bute stupe” da utilizzare nelle
feste o quando veniva qualcuno a trovarci.
Non
sono convinto che questa fine enologia portasse ad un prodotto di grande
qualità, tant’è che personalmente sono arrivato fino quasi ai trent’anni prima
di apprezzare il vino, ossia prima di comprendere che quel nettare delizioso che
si trova in bottiglia, prodotto da coloro che di ciò sanno occuparsi, era qualcosa
di completamente diverso da ciò che sin da piccolo avevo visto produrre
artigianalmente in casa e mi dicevano fosse vino. Ma tant’è, e al di là di questo,
ciò che conta è ricordare che quelle sono state giornate di grande allegria, da
conservare come sempre, nel cassetto dei ricordi.
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