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Questo è il mio blog personale, un blog di confine, dove proverò a pubblicare un pò di cose mie, per me e per chi le vorrà leggere.

Il Confine

...un confine, proprio perché si pone di fronte a una differenza, deve essere valicato, non deve essere ignorato ponendovi a limite la diffidenza, così come è valicato sistematicamente il confine che c’è fra il giorno e la notte, tra il prima e il dopo, tra la terra e il mare, fra l’uomo e la donna, tra la vita e la morte.

venerdì 28 novembre 2014

L'uva



Visto che siamo in tema del “come eravamo d’autunno”, ecco il secondo episodio della trilogia (o quadrilogia, non so, dipenderà dalla penna), questa volta dedicato all’uva, o meglio alla vendemmia.
Occorre ricordare che in quei tempi, dico gli anni ’60 e ’70, una famiglia normale consumava circa un litro e mezzo di vino al giorno e magari anche due, che moltiplicati per tutto l’anno facevano ben più di cinquecento litri, ossia l’equivalente di una decina di damigiane. Ora non è che uno si andava a comprare cinquecento litri di vino in enoteca, a meno che fosse Agnelli e dunque tutti facevano per necessità e passione, una produzione casalinga di vino, da conservare in cantina nelle suddette damigiane, per poi tirarlo nei pintoni da due litri, mano a mano che queste venivano svuotate.
In base a questa necessità assoluta, sino almeno a tutti gli anni ’70 c’erano vigne e viti anche in pianura, a Viotto, Murisenghi, Appendini, eccetera o nella prima collina, tipo Cumiana, Frossasco, Bricherasio. Il problema era che queste uve erano di bassa gradazione e fare il vino utilizzando esclusivamente quelle, non rendeva un prodotto decente nel senso letterale del termine.
Quando le possibilità economiche crebbero un pochino, nacque quindi la tecnica della doppia vendemmia, la prima fatta in zona e la seconda in Langa o nel Roero, dove già in estate mio padre e i suoi fratelli si erano premuniti di trattare alcune partite di uve nobili, da andarsi a raccogliere direttamente sul posto.
Era così che un bel giorno di ottobre, saltata la scuola, si partiva tutti stipati sul Lupetto o sul Cerbiatto, preso a nolo e tra fumate e grattate del motore si raggiungeva Montà, piuttosto che Priocca.
Dedicata la giornata ai filari di barbera o dolcetto, non con poca fatica, si mangiava tutti insieme sotto la pergola, fra cibo e canzoni e si rientrava la sera tardi, con poco riposo, perché il giorno dopo i grandi facevano la spremitura. Con la macchina per l’uva, a manovella, piazzata sopra il tino, la “bunsa”, un cesto per volta si mescolava l’uva locale a quella nobile, in proporzioni di alchimia misteriosa che, si sperava, avrebbero fornito un risultato apprezzabile.
La cosiddetta rapa, che la macchina separava dagli acini, almeno a casa nostra veniva buttata, in quanto fortunatamente ci si asteneva dalla produzione della grappa.
Nelle settimane seguenti poi il vino veniva mano a mano filtrato e travasato nei bottiglioni. Una damigiana buona, comprata direttamente sul posto, veniva trasformata in “bute stupe” da utilizzare nelle feste o quando veniva qualcuno a trovarci.


Non sono convinto che questa fine enologia portasse ad un prodotto di grande qualità, tant’è che personalmente sono arrivato fino quasi ai trent’anni prima di apprezzare il vino, ossia prima di comprendere che quel nettare delizioso che si trova in bottiglia, prodotto da coloro che di ciò sanno occuparsi, era qualcosa di completamente diverso da ciò che sin da piccolo avevo visto produrre artigianalmente in casa e mi dicevano fosse vino. Ma tant’è, e al di là di questo, ciò che conta è ricordare che quelle sono state giornate di grande allegria, da conservare come sempre, nel cassetto dei ricordi.

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