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Questo è il mio blog personale, un blog di confine, dove proverò a pubblicare un pò di cose mie, per me e per chi le vorrà leggere.

Il Confine

...un confine, proprio perché si pone di fronte a una differenza, deve essere valicato, non deve essere ignorato ponendovi a limite la diffidenza, così come è valicato sistematicamente il confine che c’è fra il giorno e la notte, tra il prima e il dopo, tra la terra e il mare, fra l’uomo e la donna, tra la vita e la morte.

venerdì 19 giugno 2009

Il Piave mormorava...

“Il Piave mormorava caldo e placido al passaggio, dei primi fanti il 24 maggio…”.
Avevo circa 10 anni quella domenica pomeriggio, quando arrivai in casa del nonno, correndo e cantando.
- Nonno, nonno! Hai sentito che bella questa canzone. L’hanno suonata in piazza questa mattina i soldati per celebrare l’anniversario della vittoria. La conoscevi già?
Il nonno non seppe trattenere una risata esclamando:
- Oh, benedetto figliolo, da quanto tempo non sentivo cantare questa canzone! Certo che la conosco e come non potrei. Vieni, vieni, siediti che ti racconto – e intanto aveva aperto la credenza per prendere una scatola di torcetti al burro.
- Ascolta, quel lontano autunno, proprio qui nella piazza del paese, la gente non perdeva occasione per intonarla e tutti sembravano pazzi di gioia per la recente fine della guerra ed io li sentivo cantare mentre seduto sulla panca davanti al muro della casa mi godevo gli ultimi raggi di sole che la stagione ancora concedeva. Anche io ero da poco tornato dalla guerra e la ferita all’avambraccio destro mi provocava ancora dolore, anche se era ormai vecchia di un anno e del tutto rimarginata.
In quei giorni tutti cantavano e addirittura a sentire raccontare la guerra pareva che fosse stato tutto bello, che fosse stata solo un’avventura. Sì, la guerra era stata vinta e sembrava che nell’euforia della vittoria tutti avessero dimenticato le sofferenze, i massacri, i morti che ci avevano accompagnati in quegli anni. La canzone era bella, ma la ferita mi faceva male e io tornavo in continuazione con la mente a ciò che avevo vissuto e l’anima, più che la carne, per questo mi doleva.
- Nonno, raccontami come è andata allora? – domandai con la bocca piena di gustosi torcetti.
- Dovevo vedere Trieste! Sembrava che solo per lei dovevamo combattere nell’agosto del 1917 sull’altopiano del Carso. I nostri comandanti cercavano in tutti i modi di instillarci in testa ancora un poco di quello spirito combattivo che la continua vista dei morti e le sofferenze ci avevano del tutto fatto perdere.
- Ma questo – ripetevano – sarebbe stato lo sforzo decisivo, la spallata finale che avrebbe travolto gli austriaci e ci avrebbe finalmente condotti a Trieste.
- E chissà come era Trieste! Ce la immaginavamo come una città fantastica dove gli abitanti ci attendevano con ansia, per scatenarsi al nostro arrivo in una festa bellissima, ma sinceramente io non credevo affatto che sarebbe stato così facile e che avremmo finalmente travolto gli austriaci. Ero sotto le armi da tre anni e troppe volte avevo sentito frasi simili senza mai vedere altro che giovani mandati al massacro e troppi, troppi compagni perduti. Invece l’unica cosa certa pareva essere la perdita di senno dei comandanti che si ostinavano a farci combattere una guerra che sembrava non avere mai fine. In quei tre anni avevamo girato come trottole tutto il fronte italiano comandati ad una serie continua di spostamenti che davano l’impressione di non avere alcuna logica: dall’Isonzo ad Asiago, dal Pasubio al Cadore, da Gorizia allo Stelvio, tutti i luoghi avevano lo stesso aspetto denso di morte e tragedia. Ora toccava al Carso.
Io ero piccolo ma vedevo il nonno che faticava a parlare e gli luccicavano gli occhi, anche se erano passati più di cinquanta anni da quei momenti. Allora, quasi a voler spezzare l’angoscia, si ricordava di un qualche episodio divertente.
- Pensa che una volta, durante il nostro girovagare ci capitò persino di incontrare il re! Si, perché il re si era trasferito presso il fronte all’inizio della guerra per seguire da vicino le operazioni e quel giorno, mentre eravamo di pattuglia, ci fecero sistemare perché poco avanti a noi si era fermato il re, per pranzare.
- Ma era sul cavallo? – domandai io.
- Macchè, rimasi molto colpito quando lo vidi: in mezzo al prato erano distese alcune coperte e sopra erano posati due cestini con del cibo. Alcuni uomini in uniforme facevano corona ad un uomo di mezza età seduto su uno sgabello che quando ci scorse si alzò.
- Quello è il re? – pensai. Apparve un ometto decisamente piccolino, era Vittorio Emanuele III. Poi egli si avvicinò e domandò i nostri nomi e da dove venivamo. Quando gli dissi il mio paese si illuminò un momento e parlando in piemontese chiese se gradivo qualcosa da mangiare: “E’ solo pane e formaggio” ma io non avevo il coraggio di dire di sì. Allora insistette e mi fece strada, sulla tovaglia c’era del formaggio, del salame, delle uova. Accettai un pezzo di frittata con un po’ di pane che per l’emozione non riuscivo a trangugiare. Poi il re fu chiamato e si allontanò. Nella mia fantasia mi ero immaginato che i re fossero sempre solenni, vestiti con corona e mantello e ne rimasi profondamente scosso, ma anche un po’ divertito – concluse il nonno.
- Già che buffo – dissi anch’io, aggiungendo:
- Ma la ferita come te la sei fatta, nonno?
- Il mese di maggio venne la tragedia! Il Comando italiano stava preparando l’ennesima battaglia, ora so che poi venne chiamata la decima battaglia dell’Isonzo, quella che nelle intenzioni doveva essere risolutiva. Fummo ammassati nelle trincee come sardine. Mai avevo visto fino ad allora così tanti soldati tutti insieme. Eravamo talmente tanti che non riuscivamo neppure a sdraiarci per terra e dovevamo riposarci stando seduti o appoggiati al parapetto della trincea. E ad ogni ora che passava continuavano ad arrivarne sempre altri ed altri ancora. Di fronte a noi stava un monte piccolo ma con un nome che metteva paura “l’Hermada”: dovevamo conquistarlo ad ogni costo per aprirci la strada verso Trieste.
Anche il nostro nome era terribile “Lupi di Toscana” e proprio per questo ci venivano affidati i compiti più difficili.
La battaglia iniziò le prime ore del mattino, quando, come al solito si scatenò il bombardamento dell’artiglieria: migliaia di cannoni presero a sparare contemporaneamente su tutto il fronte. Il frastuono era terribile e dovevamo proteggerci le orecchie con pezzetti di stracci. Dopo un po’ non si vide più nulla tanto era il fumo che copriva le colline che ci stavano di fronte. All’improvviso si levò un vento fortissimo e contrario e fummo travolti dal fumo delle esplosioni. Addirittura molte granate dei cannoni, deviate da questo vento, iniziarono a cadere verso le nostre postazioni tanto che temevamo che ci avrebbero prima o poi colpiti, sempre che non fossimo già morti a causa del fumo velenoso.
Noi aspettavamo e in quell’attesa angosciosa mi chiedevo se mai sarei tornato indietro o se sarei morto quel giorno. Sapevo che la battaglia non sarebbe servita a nulla, perché sembrava impossibile riuscire sfondare le linee nemiche proprio questa volta, visto che mai ci eravamo riusciti in precedenza. Ma più di tutto non capivo perché i nostri comandanti si ostinassero a mandarci al massacro ben sapendo che contro le mitragliatrici e il filo spinato non c’era modo di passare, tentando e ritentando assalti anche quando la logica e l’esperienza erano contrarie. Possibile che non avessero pietà di noi? Possibile che non ci fosse modo di inventare una diversa strategia per attaccare gli austriaci? E quanto a noi, come era possibile che accettassimo ancora di andare all’assalto a morire inutilmente come migliaia di altri ragazzi avevano già fatto prima? Non c’era risposta! Non sono riuscito mai a darmi risposta. Intanto che pensavo bevevo un po’ di cognac e cercavo di farmi coraggio.
Nella trincea faceva un caldo terribile sotto il sole di maggio, la divisa di panno non ci faceva respirare o forse era la paura; la sete ci tormentava, ma non c’era acqua da bere: dovevamo andare all’assalto e non avevamo una goccia di acqua da bere!
Poi venne l’ora. Il tenente si appoggiò al parapetto guardando l’orologio e all’improvviso gridò “Savoia” e al grido ci lanciammo fuori. Molti ragazzi non avevano ancora compiuto un passo che vennero colpiti. Mi misi a correre come un pazzo in avanti senza neppure sapere dove andavo. Dappertutto si sentivano grida e si vedevano soldati cadere. Era terribile l’incessante rumore delle mitragliatrici: rat-ta-ta-ta, rat-ta-ta-ta. Se ci penso lo sento ancora adesso. Ma non so per quale strano caso del destino non fui colpito. Correvo e mi infilai fra due reticolati con alcuni compagni e giunsi, non so come, alla prima trincea nemica. Dentro c’erano gli austriaci e ci affrontammo con la baionetta. All’improvviso sentii un dolore fortissimo: un soldato nemico si era difeso infilandomi la baionetta nell’avambraccio destro.
Il nonno tirò su la manica e mi fece vedere la lunga cicatrice che sul lato interno dell’avambraccio partiva dal polso e terminava al gomito.
- Proprio in quel momento una granata esplose vicina a noi e numerosi uomini vennero uccisi saltando in aria come fossero di carta. Fui sepolto dai cadaveri che mi erano ricaduti addosso e quella fu probabilmente la mia salvezza. Stringendo in qualche modo la manica della giacca riuscii a tamponare la ferita. Tutto intorno la battaglia continuava. Pensavo che quello era veramente l’inferno e io c’ero caduto dentro, solo che non sapevo quale fosse la mia colpa. Credevo anche che la guerra non sarebbe finita mai, fino a quando anche un solo uomo fosse rimasto vivo. Poi persi i sensi. Non so quanto tempo rimasi incosciente, ma quando mi svegliai la battaglia era finita. Sopra di me sentivo un peso insopportabile, l’odore terribile dei morti lo era ancora di più. La gola mi ardeva dalla sete, mi mancava il respiro. Con grande sforzo a poco a poco mi liberai dai soldati morti che mi schiacciavano e cercai di alzarmi. Guardai fuori dalla trincea. La vista era insostenibile: migliaia e migliaia di soldati morti, italiani e austriaci, distesi a terra nelle posizioni più assurde, carbonizzati, con membra e pezzi di corpo sparsi ovunque e un fumo acre che aleggiava nell’aria. Da ogni parte si sentivano grida e gemiti. Avevamo vinto? Avevamo perso? Ma in quella tragedia chi poteva aver vinto? Che senso poteva avere la vittoria? C’erano migliaia di vite spezzate, tutto il resto non importava. Il monte Hermada stava dietro di me, minaccioso come sempre. Avevo sete, ma l’unica cosa che potei bere furono le mie lacrime.
- E poi come è finita? - domandai ancora, colpito da questo racconto.
- Di notte sono riuscito a rientrare nelle nostre linee e fui mandato all’ospedale militare. Per me la guerra era finita anche se durò ancora più di un anno, un nemico mi aveva ferito ma anche salvato. Poi, per fortuna, venne la pace. Ti racconto queste cose terribili perché servano da ammonimento, ricordati che a noi non sono bastate e abbiamo dovuto fare un'altra guerra per capire quanto fossero sbagliate e quanto male hanno causato. Voi ragazzi non dimenticate mai e non dimenticate mai le nostre sofferenze inutili.
Rimasi un po’ pensoso, poi nella mia testolina balenò una domanda.
- Nonno, ma dimmi una cosa: è bella Trieste?
Il nonno mi guardò amorevolmente e accarezzandomi la testa mi disse:
- Non lo so caro, non ci sono mai stato!

1 commento:

  1. Il tempo che passa ci fa dimenticare o ignorare le sofferenze dei nostri nonni.
    Marco

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